Tratta dal libro Faith Beyond Resentment: Fragments Catholic and Gay pubblicato in italiano da Transeuropa edizioni con il nome Fede oltre il risentimento.
Poiché ai tuoi servi sono care le sue pietre e li muove a pietà la sua rovina. (Sal 102:15)
Un cuore vicino a spezzarsi
Vorrei creare con voi una specie di spazio in cui sia permesso ad un cuore di arrivare molto vicino a spezzarsi. Sempre di più trovo che sia uno spazio indispensabile per poter partecipare al discorso teologico. La prossimità a spezzarsi si raggiunge nei momenti in cui non sappiamo come esprimerci, quando la confusione minaccia di prendere possesso dei nostri pensieri. Due sono allora le tentazioni principali: fare gli spacconi e svicolare dalla situazione che ci attanaglia ostentando nelle nostre parole sicurezza e arroganza per dare l’impressione che la confusione non sia nostra ma provenga da altrove; oppure sprofondare nel silenzio pieno di vergogna di colui che si sente scoperto e per questo motivo spogliato del diritto di parola. Per quanto poco questo spazio del cuore sembri promettere, per quanto difficile possa essere rimanervi dentro una volta trovato ed occupato, questo spazio del cuore vicino a spezzarsi mi pare il luogo più adatto da cui cominciare ad abbozzare un percorso verso le prime, stentate parole di una teologia per il terzo millennio.
Ad aiutarci nella costruzione di questo spazio voglio citare tre episodi biblici, tre esempi che puntano nella stessa direzione. Il primo si trova nel testo delle Scritture, gli altri due sono piuttosto dei momenti a partire dai quali questi testi vennero forgiati dei testi. Cominciamo con il profeta Elia. Gli altari di Jahve sono in rovina, il regime di Akab favorisce i seguaci di Baal. Elia, paladino del culto di Jahve, si incarica di promuovere una valorosa guerra contro i profeti di Baal, organizzando una competizione tra divinità per determinare quale dio sia in grado di bruciare il toro sacrificale in un fuoco celeste. Nel fervore crescente delle preghiere e delle litanie dei profeti di Baal, Elia comincia a prendersi gioco di loro, suggerendo tra l’altro che forse Baal non ha tempo di apparire fra di loro perché impegnato a defecare. Quando viene il suo turno di offrire il sacrificio, Elia per prima cosa ricostruisce l’altare di Jahve, poi immerge completamente il suo toro nell’acqua e boom! la saetta colpisce. Tutti i presenti si prostrano a terra gridando: “Il Signore è il vero Dio.” Elia approfitta immediatamente di questa unanimità, puntando il dito contro i quattrocentocinquanta profeti di Baal e ordinando che vengano presi e messi a morte. Il suo ordine viene eseguito all’istante.
Dopo questo trionfo, sentendosi alquanto avvilito, Elia si inoltra nel deserto, desideroso di morire. Dio gli fornisce il cibo necessario per sopravvivere, che però non lo soddisfa troppo, tanto che un angelo deve intervenire ad esortarlo a mangiare, per poi spedirlo in un viaggio di quaranta giorni e quaranta notti fino al Monte Oreb, come Mosé, a cui Dio aveva parlato in quello stesso luogo. Giuntovi, Elia si nasconde in una caverna, nella quale Dio deve scendere per trovarvi il disilluso profeta. Dio gli chiede che cosa stia facendo lì e lui risponde:
“Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita.” (I Re 19:10)
Dio gli ordina di uscire dalla caverna e di fermarsi alla presenza del Signore, che gli annuncerà il suo passaggio. Conoscete la storia: prima soffia un vento impetuoso che spacca le montagne e spezza le rocce, ma il Signore non è nel vento. Poi viene un terremoto, ma il Signore non è nel terremoto; più avanti un fuoco, ma il Signore non è nel fuoco. Dopo il fuoco si ode il mormorio di un vento leggero. Appena lo sente, Elia esce e si ferma all’ingresso della caverna e Dio gli parla, chiedendogli cosa stia facendo lì, e ancora Elia ripete:
“Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita.” (I Re 19:14)
A questo punto, in una straordinaria caduta di tensione, Dio ordina ad Elia di recarsi a Damasco, ungere Ieu come re di Israele e nominare Eliseo a succedergli nel ruolo di profeta, aggiungendo che Egli ha riservato per sé settemila uomini che non si sono inginocchiati di fronte a Baal. Elia va e obbedisce. Fatto questo, i suoi interventi successivi si riducono a pochi, fino a che non viene sollevato in cielo in un turbine ed ha inizio il ministero di Eliseo.
Dunque, quella che a prima vista sembra una storia di trionfo del culto di Jahve viene in realtà presentata come la storia del disinganno di Elia. Prima del disinganno Elia era un leone in battaglia, senza alcun problema di autostima o di fiducia di sé. Dio era una divinità come Baal, solo più grosso e più forte, ed Elia ne era il portavoce, quello che attirava allo scoperto le sue vittime. La disputa sul Monte Carmelo è una splendida battaglia tra sciamani o stregoni rivali. Dopo l’interludio sanguinoso, che lui aveva vinto, Elia cade in depressione e comincia a dubitare del valore di tutto ciò:
“Ora basta Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri.” (I Re 19:4)
L’autore di queste sacre scritture ci regala qui qualcosa di veramente notevole: non una serie di elogi per il campione di Jahve, bensì la storia di come Elia iimpara a non identificare Dio con tutti quegli effetti speciali che lui ha imparato a manipolare per ottenere risultati tanto violenti. Tutto quello scompiglio sul Monte Oreb viene presentato come una specie di decostruzione dello scenario sacro associato a Mosé, in quanto il Signore si fa presente nel mormorio del vento leggero e non in espressioni naturali di maestosa imponenza. Inoltre, invece di approfittare dello zelo che Elia piagnucola di possedere in quantità, Jahve gli affida dei compiti piuttosto modesti, delle istruzioni su come passare il comando ad altri. E mentre Elia, ritenendosi una sorta di martire eroico, proclama a Dio di essere l’unico rimastogli fedele, Jahve gli rende noto di avere settemila uomini nella manica che non si sono erano inginocchiati davanti a Baal. Ora, uno può anche immaginare cosa possa significare l’esercizio dello zelo in nome di un dio che appare sottoforma di uragani, terremoti e incendi. Ma cosa mai può voler dire essere zelanti al servizio di un venticello che mormora? Quello che si appresta ad adempiere i compiti assegnatigli è un Elia alquanto mortificato.
Ebbene, vorrei suggerire che questa scena ci offre una testimonianza di grande valore sul processo teologico che ha luogo nello sviluppo delle Scritture ebraiche: la forza teologica della crisi di certezze che accompagna il crollo del sacro. All’inizio abbiamo un sacro culto di Jahve, che convive alla pari con un’altra religione sacra, ma i cui sacrifici sono più efficaci, il cui Dio è più potente e la cui capacità di unire le persone per una guerra sacra è maggiore. Poi, tutto questo viene annullato. Il mormorio della brezza la dice più lunga di quel che sembra: dice che Dio non è un rivale di Baal e che non ci si deve aspettare di trovarlo nelle forme della violenza sacra. Entrando in contrasto con i profeti di Baal, Elia diviene uno di loro, perché Dio non si trova in questi spettacoli di antagonismo, né nelle stragi che ne seguono. Alla fine, completamente disilluso, Elia si ritrova ad essere un seguace di Jahve più profondo, più ateo, meno sciamano, meno sacrificatore, perché Dio non è come gli altri dei, neanche quel tanto che basta per mostrarsi supreriore a loro. La caverna sull’Oreb diviene per Elia lo spazio teologico per lo spezzarsi del suo cuore.
Ci troviamo qui di fronte al crollo del sacro, una vera e propria demolizione di strutture personali e modi di parlare di Dio. Siamo nel crogiuolo in cui si forgia lo sviluppo teologico. Il che ci porta a considerare gli altri due episodi biblici che vorrei porre in rilievo, due momenti chiave in cui proprio questo crollo del sacro ha coinciso con un con un marcatissimo avanzamento dello sviluppo teologico. Il primo di questi momenti è la caduta di Gerusalemme nel 587 a.C.. Cerchiamo di capire che cosa quest’evento possa aver significato per noi se fossimo stati ebrei del tempo. Non solo la nostra capitale è stata saccheggiata e il nostro re, la sua corte e tutti gli intellettuali deportati, ma addirittura il tempio sacro è stato distrutto, là dove pensavamo Jahve avrebbe dimorato per l’eternità. La monarchia ha cessato di esistere, dove pensavamo che Dio avesse promesso alla discendenza di Davide il regno perpetuo. E adesso non c’è più culto, non c’è più sacrificio, i sacerdoti sono in esilio. I pilastri della struttura del culto dell’unico vero Dio sono stati mandati completamente all’aria. Sembra addirittura che gli dei di Babilonia, Marduc e compagnia, siano superiori a Jahve, visto che hanno trionfato su di lui e trascinato via i suoi seguaci. Proviamo ad immaginare tutto questo dall’interno, a metterci nei panni di questi nostri antenati nella fede. I libri di teologia descrivono questo come un momento di rottura decisiva nella storia intellettuale dello sviluppo del monoteismo a livello universale, ma si astengono dal darci modo di apprezzare fino in fondo il corso di quello sviluppo. È un processo che molto probabilmente fu vissuto come ununo di totale annientamento: tutte le strutture di associazione di gruppo, di appartenenza personale, familiare e tribale, tutto in rovina nella polvere. L’intero mondo immaginoso in cui Jahve veniva venerato, in frantumi. La potenza di ciò che accadde rischia di venire gravemente sottovalutata se non comprendiamo una cosa: che il processo di ripresa, che diede vita ad una religione di testi e di interpretazione di testi, relegando in secondo piano il tempio, il culto e la monarchia o, nel caso di quest’ultima, trattandola come un’utopia, il processo di recupero, con il suo impegno a trarre alcuni elementi dalle rovine, fu in realtà poco meno che una nuova religione esso stesso, la nuova forma di vita comunitaria che chiamiamo giudaismo.
Il processo a cui assistiamo è quello di un rovesciamento che impone l’apprendimento graduale del distacco da tutto ciò che sembrava divino e sacro e il disfacimento dello zelo verso il Signore degli eserciti. Allo stesso tempo porta ad imparare ad ascoltare il mormorio del vento leggero e a reinventare uno zelo di tipo nuovo. Che significa reinventare una vita nel culto di Jahve, dove Jahve è disgiunto da molte delle cose che sembravano prima elementi indispensabili ed immutabili del suo culto.
Il secondo momento chiave, nonché terzo episodio biblico dalla stessa struttura che vorrei esaminare è la conversione di Saul. Dico “stessa struttura” perché Paolo stesso lo fa rilevare. Nel descrivere la propria conversione nella sua lettera ai Galati (Gal 1:11-17), Paolo la racconta ponendola in relazione alla storia di Elia: come lui, anche Paolo era un violento persecutore e il suo zelo (parola chiave) superava di gran lunga quello dei suoi compatrioti. Dopo l’esperienza della conversione non si consultò con nessuno e, come Elia, partì immediatamente per il deserto, tornando da lì poi a Damasco, dove anche Elia si era diretto per ungere Ieu dopo aver sentito il mormorio del vento leggero. Paolo dunque narra la sua storia nella cornice fornitagli dal crollo dello zelo di Elia che abbiamo prima esaminato. Tutta la sua vita e la sua esperienza apostolica successive sono caratterizzate dal crollo del mondo sacro del quale egli era stato un militante particolarmente feroce; un crollo prodotto dal riconoscimento che, nel suo zelo verso il servizio a Dio, era stato proprio Dio che egli aveva sempre perseguitato. Per Paolo il mormorio del vento leggero fu la voce della vittima crocifissa e risorta di cui lo Spirito Santo è il soffio.
Il motivo del mio porre in rilievo la vittima crocifissa e risorta è semplice. Vorrei che come sfondo alla discussione teologica che desidero cominciare con voi venisse alla luce una dimensione molto importante dell’esperienza della resurrezione, che normalmente non riceve la dovuta attenzione. L’esperienza della novità, della vitalità e dell’esuberanza di Dio prodotta negli apostoli dall’apparizione del Signore risorto, che poco a poco cambiò tutta la loro prospettiva e la loro immaginazione, non fu solo l’esperienza di un valore aggiunto ad un bene preesistente. Ad ogni passo nella rivelazione più chiara e completa di Dio, — che è come dire ad ogni successiva purificazione della fede, — corrisponde il crollo simultaneo di tutta una serie di elementi che venivano ritenuti bastioni indispensabili della fede. Perché questi elementi in realtà si scoprono essere parte di un sistema idolatra, in precedenza confuso con il culto del vero Dio. Questo pone in evidenza un concetto che immagino sia ovvio per tutti, sebbene poco nominato nei trattati cattolici sulla fede: la fede nel Dio vivente introduce automaticamente nel mondo un processo di sfaldamento del credo. Chi comincia a credere nel Dio vivente comincia automaticamente a perdere la fede nell’inevitabilità delle cose. Cose come il fato, la sacralità dell’ordine sociale, il progresso inevitabile, l’oroscopo e via dicendo. Perché, nel momento in cui la nostra immaginazione, le nostre strutture mentali ed emotive cominciano ad assorbire quella che è la vivacità del Dio Creatore che dà vita e sostiene tutte le cose, ecco che tutti gli altri elementi si rivelano parte di un ordine sacro morto, attributi della divinità —e dunque della fissità —di cose che sono umane, strutturate socialmente, culturalmente ed economicamente, e per questa ragione dipendenti dalla responsabilità umana e potenzialmente modificabili attraverso l’esercizio di quella stessa responsabilità.
Ma c’è dell’altro. La resurrezione, così come fu ricevuta, incarnata e compresa da Paolo, non provocò soltanto una purificazione della prospettiva umana su Dio. Quella purificazione si dimostrò assolutamente inseparabile dalla presenza di una vittima umana crocifissa e risorta; una presenza che inaugura e mantiene costantemente vivo un processo di desacralizzazione della matrice religiosa all’interno della quale quella stessa crocifissione e resurrezione avvennero e nella quale Saul aveva avuto un ruolo ben preciso. Tutta la predicazione di Paolo, tutta la sua teologia, sono caratterizzate dal processo del crollo di una certa struttura sacra e dalla lenta scoperta della prospettiva data da uno spostamento del centro su Jahve, l’equivalente paolino del mormorio della brezza di Elia. L’intera discussione di Paolo sulla legge non è altro che il tentativo di chiarire che, a partire dal momento in cui la resurrezione rende il crocifisso compagno ermeneutico costantemente presente nel nostro vivere la religione di Jahve, anche ciò che prima era parso sacro ed intoccabile all’interno di quella religione, la stessa Torah di Dio, viene ad essere desacralizzata. Un testo che va compreso a seconda che lo si legga come contributo al sacrificio di altre vittime all’interno di un sacro ordine o lo si interpreti nel suo ruolo di forza decostruttiva del mondo dei sacrifici e degli ordini sacri.
C’è qualcos’altro che vorrei suggerire. Partendo dalla sua esperienza, Paolo aveva capito benissimo, che quello che si doveva fare non era fondare una nuova religione che potesse creare un nuovo ordine sacro più adatto alla nuova prospettiva su Jahve. Quello che si voleva era piuttosto annunciare la presenza costante in mezzo a noi di Dio come vittima crocifissa e risorta. È proprio quella presenza ad aprirci la possibilità di vivere nel mondo mediante la continua decostruzione del sacro artificiale in ogni ambito di vita in cui ci troviamo, contribuendo così alla costruzione di una diversa forma dell’umano convivere in cui tutte le distinzioni sociali apparentemente sacre comincino ad essere demolite e si apra la strada ad una fratellanza a tutt’oggi inimmaginabile.
Questa esperienza dunque —, l’esperienza del crollo del sacro che abbiamo visto nel caso di Elia e nell’esilio degli ebrei, — non rappresenta un episodio del passato, ma è parte costante del processo con il quale la fede prende vita. Non possiamo capire l’annuncio della resurrezione se la leggiamo solo come un momento miracoloso su cui si fonda una nuova religione. Così facendo, di fatto negheremmo tutta la forza e l’efficacia della resurrezione. Perché quello che la resurrezione determina è il definitivo insediamento in mezzo a noi, come principio ermeneutico costruttivo, del culto di Jahve che non conosce la morte e che viene venerato attraverso il continuo esercizio alla partecipazione e al non lasciarsi scandalizzare dal crollo del sacro. Un sacro il cui segreto è sempre la vittima che nasconde, e che dipende interamente dal sacrificio di essa.
È questo ciò che intendo per spazio di un cuore vicino a spezzarsi: uno spazio in cui imparare a forgiare un modo di parlare di Dio in mezzo alle rovine delle forme del sacro in pieno crollo. Uno spazio in cui riconoscere la nostra stessa connivenza nelle forme passate del sacro, con tutta la loro violenza e le loro vittime. Uno spazio dove arrivare a capire che Dio non ha nulla a che vedere con tutto ciò, e anche uno spazio in cui, proprio nella decostruzione di tutto ciò, impariamo nuovi modi di esprimere la parola di Dio, che ci rendono partecipi della nuova creazione. Insomma, lo spazio eucaristico per eccellenza, dove Cristo è presente come il crocifisso e noi come penitenti impegnati ad imparare come uscire dal circolo di solidarietà con le nostre varie e molteplici modalità di implicazione nella crocifissione; ancora di più, lo spazio dove Cristo è presente come Signore crocifisso e risorto, dunque non come accusa contro la nostra partecipazione, ma come fonte e forza per una nuova, mai immaginata prima, infinita ricostruzione.
Se ci ho messo tanto per arrivare a questo punto, che forse è fin troppo ovvio, è perché mi sembra che ci troviamo proprio tra quel genere di rovine. All’inizio del nuovo millennio e a più di quarant’anni dalla fine del Concilio Vaticano II ci troviamo nel bel mezzo di un durissimo scontro tra sostenitori vocianti di due modalità del sacro, due tipi di zelo sacro. Da una parte lo squillo di tromba restauratore di un cattolicesimo nostalgico di un sacro e stabile passato, sostenitore della purezza della dottrina e dei costumi, delle differenze sacre e delle tecniche sacrificali per il mantenimento dell’ordine e dell’unità. Dall’altra uno squillo di tromba non meno sacro, quello di chi assume la posizione della vittima, facendo di una condizione di autentica emarginazione sicura piattaforma di protesta per la rivendicazione della propria innocenza e di uno status sacro. Entrambi questi squilli sacri vantano dei sacerdoti capaci di puntare il dito contro tutti coloro che non si conformano al gruppo, esigendo il sacrifico di quelli che non partecipano alla sua unanimità. In entrambi i casi, la domanda che tradisce la mentalità sacrificale sottostante il gruppo è la stessa: sei dei nostri o stai con loro? Una domanda che rende impossibile lo spezzarsi del cuore e quindi l’Eucarestia. Quello che vorrei suggerire è che entrambi quegli squilli sono illusioni, il rumore di chi non accetta la realtà di trovarsi fra le rovine, di chi non vuole ammettere che Gerusalemme è stata rasa al suolo, di chi non sa né come trarre gioia dalle sue pietre, né come essere mosso a pietà dalle sue rovine, per poter partecipare, partendo da questi resti poco promettenti, alla costruzione della nuova Gerusalemme.
Accogliere una prospettiva
Dalle storie di Elia, dell’esilio a seguito della distruzione del tempio e di Paolo una cosa risulta chiara: i protagonisti non hanno potuto partire che dal luogo in cui si trovavano. Non c’era nessun principio universale, nessuna idea onnicomprensiva o discorso predefinito che potessero semplicemente adottare come punto di partenza. Non potevano convertirsi a qualcosa di preesistente, imparando ad adattarsi a date regole e a modi di strutturare il sé e la propria appartenenza. L’unica prospettiva disponibile, dalla quale provare a farsi una ragione delle pietre e delle rovine, era la loro. Da notare che comunque questa prospettiva non era quella di chi entra per la prima volta in scena, innocente, con una tabula rasa al posto della personalità, uno che parte da zero, un eroe fondatore. Quella sarebbe già una prospettiva rigida, eroica magari, ma incapace di portare il cuore a spezzarsi. No, in ognuno dei casi citati la prospettiva da cui i protagonisti dovettero partire era quella data loro dal processo che li aveva visti coinvolti in qualcosa che era stato in seguito completamente demolito. Senza quella demolizione non ci sarebbe stata nemmeno quella prospettiva. Ognuno di loro aveva ricevuto una prospettiva proveniente dalla forza delle situazioni alle quali aveva partecipato e nelle quali la propria partecipazione era stata, in un modo o nell’altro, scossa fin nelle fondamenta.
Perché esista una teologia cattolica nel terzo millennio, vorrei suggerire, dobbiamo aspettarci tutti che avvenga un simile processo. Lo spazio che ci porta vicini allo spezzarsi del cuore è quello in cui impariamo ad accogliere la nostra prospettiva, così che partendo da essa potremo imparare a parlare correttamente di Dio e ad imitarlo. La prospettiva sarà alquanto diversa per ognuno di noi, poiché cattolicità non significa una prospettiva unica da cui tutti dobbiamo partire tutti, ma la scoperta e la costruzione di una vera, sorprendente fratellanza, che ha inizio nel momento in cui superiamo la tendenza a forgiare secondo la nostra prospettiva un sistema sacro che esclude. In questo contesto vorrei dunque offrire alcuni elementi della prospettiva entro la quale io sto ritrovando me stesso; li offro come risorsa che potrebbe magari rivelarsi utile a chi fosse impegnato nella costruzione della propria cattolicità. Sono perfettamente consapevole di provenire da una cultura, un ambito linguistico e una storia estranee alla maggior parte di voi e per questo non penso affatto che quello che ho da dire arrivi a raggiungere tutti allo stesso modo. [1] Tuttavia spero che, per quanto lontani gli elementi di questa storia possano essere dalla vostra esperienza, riusciate a trovare comunque in essa qualcosa con cui possiate essere in risonanza.
Alcuni anni fa, in una repubblica latino-americana che non nominerò, mi trovai in una strana situazione. Ero da poco arrivato per iniziare il mio lavoro di insegnante di teologia. Dopo tre giorni il mio capo mi chiamò e mi disse: “Brutte notizie, James. Ho ricevuto la telefonata di quattordici superiori religiosi riuniti in un altro paese, che mi hanno intimato di licenziarti su due piedi sulla base del fatto che sei un omosessuale militante; se non lo faccio non manderanno nessuno studente al nostro corso”. La minaccia comprendeva l’annullamento dei fondi necessari alla gestione del corso. Vogliate notare che i superiori non avevano mosso contro di me alcuna accusa di pratica omosessuale, né mai lo fecero nell’investigazione che ne seguì. L’accusa era quella di una, diciamo così, militanza politica o ideologica. Il mio capo, un onesto eterosessuale, che trovava difficile comprendere l’entità della violenza scatenata dalla questione gay in ambiente ecclesiastico, si rifiutò categoricamente di licenziarmi, determinato a perdere il posto piuttosto che cedere ad un tale ricatto. Intervenne un superiore di più alto grado, il quale segnalò ai quattordici superiori che non avevano agito secondo la procedura appropriata e che ognuno di loro avrebbe dovuto mettere per iscritto e firmare qualsiasi accusa avessero contro di me, dimodoché l’accusato potesse rispondere ai suoi accusatori. Il superiore insomma insistette nel seguire la procedura corretta. Ciononostante, non fu prodotta alcuna imputazione scritta. Quando, attraverso un’inchiesta informale, vennero sollecitate eventuali accuse che si volessero sollevare senza che fossero messe per iscritto, ancora una volta non ne comparve nessuna. Pare che una o due persone abbiano detto:
“Naturalmente non lo conosco di persona, ma ho sentito dire da fonte attendibilissima che…”.
Ebbene, questa è la storia di una violenza parecchio molto spiacevole, che potrei colorire a piacimento presentandomi come vittima per conquistare la vostra compassione. In quel caso l’atto stesso di raccontare la storia assomiglierebbe molto ad una denuncia e nel racconto si delineerebbero subito dei buoni e dei cattivi. Questo significherebbe che non ho imparato nulla da quell’incidente. Avrei semplicemente adottato una delle prospettive che la nostra cultura ci offre, quella della vittima sacra. E l’avrei adottata come un’arma con la quale attaccare uno degli stereotpi di “cattivo” offertoci anch’esso dalla nostra cultura: il gruppo oscurantista e violento di ecclesiastici oscurantista e violento. Grazie al cielo, per quanto mi sarebbe piaciuto presentare le cose in questa maniera, Dio non mi ha assecondato. Qualche settimana più tardi, ancora sconvolto per ciò che era successo, partii per un ritiro gesuita e lì qualcosa di totalmente inatteso mi raggiunse. Una prospettiva che forse avevo compreso a livello intellettuale, ma che non avevo ancora avuto modo di sentire visceralmente: l’assoluta separazione di Dio da tutta quella violenza. Capii qualcosa che mi era nuovo, che Dio cioè non aveva niente a che fare con quello che era successo e che si trattava semplicemente di un meccanismo di violenza umana, nulla di più di questo. Ciò che mi permise di raggiungere questa conclusione, in termini di mezzi umani, fu la comprensione del fatto che, dal momento che avevo conosciuto solo tre di quei quattordici superiori, tutta quella violenza (sulla quale apparentemente avevano discusso per un paio di giorni, facendo fatica a proseguire con l’ordine del giorno del loro incontro) non poteva essere presa come un affronto personale. Si trattava piuttosto di un meccanismo nel quale i partecipanti si erano trovati incastrati in un modo che impediva loro di percepire quello che stavano facendo. Nel momento stesso in cui capii che avevo a che fare con un meccanismo di cui gli stessi partecipanti erano prigionieri fui in grado di prendere le distanze da quello che era successo e perdonare cominciò a rendersi possibile il perdono.
Percepire questo però non fu tutto. Perché quando ebbi capito che Dio non aveva nulla a che vedere con tutta quella violenza cominciai a vedere anche qualcos’altro, molto più doloroso: il grado del mio stesso coinvolgimento in quel meccanismo di violenza, non come vittima, ma come manipolatore: l’accusa che mi riteneva un “omosessuale militante internazionalmente noto” non cadeva come un fulmine a ciel sereno. Era già la terza volta che il mio comportamento e i miei atteggiamenti avevano provocato simili reazioni di rigetto in paesi diversi. Di fatto, nonostante fossi avessi manifestato apertamente la mia omosessualità sin dall’età di diciott’anni, avevo sempre negato di essere un militante. A coloro che si erano infuriati di fronte ai miei tentativi di aprire un discorso onesto e chiaro avevo risposto che mi indicassero un modo corretto e non militante di parlare con schiettezza di un argomento che interessa così tante persone nell’ambiente ecclesiastico e che porta solo a pettegolezzi, accuse e frequenti ingiustizie. Ovviamente, all’interno dell’ambiente ecclesiastico, quel modo corretto non esiste ancora. Il solo fatto di suggerire che in questo campo ci sia qualcosa di reale in cui siamo coinvolti e di cui dobbiamo cercare di parlare se vogliamo offrire un minimo di trasparenza ed onestà come cristiani cattolici, viene percepito unicamente, e può unicamente essere percepito, come una minaccia. Laddove il diniego, la menzogna e la dissimulazione sono le forze che strutturano la realtà, la ricerca dello scambio onesto rappresenta in se stessa la peggior forma di militanza.
Ebbene, la mia risposta, per quanto formalmente corretta, mi aveva permesso di nascondere a me stesso quello che i miei vari accusatori avevano percepito con estrema chiarezza: che anch’io ero lanciato in una sorta di crociata, che ero pieno di zelo e che quello zelo possedeva una forza prodigiosamente violenta, alimentata da un profondo risentimento. Di fatto, quello che volevo fare era crearmi uno spazio che mi desse sicurezza e pace approfittando della struttura ecclesiastica che mi sosteneva, uno spazio per la mia personale sopravvivenza. In questo modo speravo di evitare a me stesso quello che avevo visto capitare ai gay di molti altri paesi: l’emarginazione sociale, l’abbattimento dei progetti di vita, l’annientamento emotivo e spirituale. In altre parole, i miei coraggiosi discorsi erano solo una maschera che mi evitava di guardare all’assoluta viltà della mia anima, poiché non ero pronto ad identificarmi pienamente con una realtà che sapevo essere la mia e di cui conoscevo le conseguenze. Sotto sotto io stesso ero convinto che Dio stesse dalla parte della violenza ecclesiastica diretta contro le persone gay e non sapevo credere che Dio ci ama per quello che siamo. Il profondo “non devi essere” che la voce sociale ed ecclesiastica ci trasmette e che forma l’anima di così tante persone gay era pesantemente radicato nel mio essere, tanto che, au fond, mi sentivo dannato. Nel mio zelo violento combattevo perché la struttura ecclesiastica arrivasse a dirmi un “Sì”, un “Fiorisci, figlio mio”, e questo proprio perché temevo che, trovandomi solo davanti a Dio, Egli stesso sarebbe stato parte di quel “non devi essere”. Mi trovavo così a dipendere completamente dal meccanismo che cercavo di combattere. Nascondendomi il fatto di aver disperato di Dio, volevo manipolare la struttura ecclesiastica in modo che mi consegnasse un “me stesso”, che mi offrisse un “Sì” ad un livello di profondità di cui la struttura ecclesiastica, come ogni altra struttura umana, non è capace:p. Perché il “Sì” che crea e ricrea il “se stesso” di un figlio lo può pronunciare solo Dio. Ecco che mi scoprivo essere un idolatra. Avevo cercato di contrattare la mia sopravvivenza all’interno di strutture violente, ma ogni patteggiamento all’interno di strutture violente può avvenire solo attraverso la violenza. I non-violenti, i beati dei Vangeli, semplicemente subiscono la violenza e muoiono, fisicamente o moralmente.
Sto tentando di descrivervi la forma che ha preso la mia vita dall’irruzione della grazia straordinaria che ho ricevuto durante quel ritiro gesuita; naturalmente, vi sto descrivendo schematicamente qualcosa che avvenne come un tutto nient’affatto schematico e che ho impiegato anni solo per cominciare a sviscerare. Inizialmente ci fu la percezione dell’assoluto non coinvolgimento di Dio nella violenza, poi la percezione della mia non innocenza e del modo idolatra e violento del mio essere parte di quel sistema. E successivamente, alla radice di tutto, quello che mi ha permesso di cominciare a slegarmi dagli idoli che avevo tanto assiduamente coltivato, ciò che non avrei mai osato immaginare, il profondo “Sì” di Dio, un “Sì” rivolto al ragazzino gay che aveva ormai disperato di poterlo sentire. In quel momento mi sentii del tutto catturato, perché quel “Sì” non ha la forma di una caramellina di consolazione regalata ad un bambino viziato. Da quel preciso istante l’intera struttura psicologica e mentale sulla quale mi ero costruito durante gli anni precedenti cominciò a sfaldarsi senza possibilità di rimedio. Quell’intera struttura si basava infatti sul presupposto di un “No” al centro del mio essere e sul conseguente bisogno di impegnarmi in una guerra violenta per nascondere un vuoto incommensurabile. L’“io” che sono, il mio “me stesso”, è nato tra le rovine di un’idolatria pentita.
Permettetemi di aggiungere ancora una cosa. Durante i mesi che seguirono quell’incidente dovetti tenere un corso di teologia. Lo intitolai: “Cercate le cose di lassù”, prendendo spunto dalla lettera di Paolo ai Colossesi. Ironia della sorte, riuscii a terminare l’intero corso, che venne poi pubblicato, [2] senza mai capire il valore del vero significato del verso che seguiva quello da me scelto come titolo del corso:
“Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio!” (Col 3:1-3)
Ma era proprio questo che stavo imparando, finalmente. Tutta la mia vita precedente era stata segnata dall’assoluto rifiuto di morire. Il rifiuto assoluto di portare avanti l’impegno preso con il mio battesimo. Questo perché, naturalmente, ero stato incapace di pensare che il “me stesso”, l’“io” che vivrà per sempre è nascosto con Cristo in Dio. Ecco il motivo per cui ho dovutto combattere tutte quelle battaglie. L’“io” che presenziava a quelle battaglie era il vecchio Adamo, oppure Caino, un “sé” incapace di capire che non è necessario assicurarsi un posto su questa terra, trovare uno spazio sicuro, proteggersi violentemente contro la violenza. L’“io” di colui che è risorto si fa presente solo quando, alla fine, il vecchio “io” è messo a morte. Grazie a Dio, questo è precisamente ciò che i quattordici superiori sono riusciti a mettere in piedi per me. Con la forza di ciò che Paolo chiama “la legge”, ossia il meccanismo di esclusione violenta travestito da parola di Dio, sono alla fine riusciti ad uccidere quel vecchio risentito. Al suo posto, come un mormorio di vento leggero, qualcosa che non mi apparteneva assolutamente, e che non posso in alcun modo afferrare, è l’“io” dal quale ora comincio a vivere. L’“io” nascosto con Cristo in Dio comincia, poco a poco e in un movimento un po’ incerto, a costruire una nuova storia di vita tra le rovine conseguenti al crollo che l’ha preceduta.
Quanto detto finora mi è servito ad illustrare quello che ho voluto chiamare il processo di accoglienza di una prospettiva dalla quale aiutare a forgiare un discorso teologico cattolico. Mi sposterò ora dalla zona ad alto rischio dell’autobiografia per condividere con voi alcune delle cose che sto apprendendo da che ho dovuto cominciare a re-imparare la teologia, simile ad un convalescente di apoplessia che debba imparare daccapo a parlare. Vorrei esaminare alcuni temi di quella che veniva comunemente chiamata teologia morale fondamentale. O meglio, invece di analizzare una specifica questione morale, vorrei esaminare la possibilità stessa di un discorso morale che parta da quel non-spazio teologico in cui sono sorpreso e grato di trovarmi, il posto della checca profondamente amata.
Morto che parla
Alla fine del Vangelo di Luca si trova uno dei testi più ricchi e sofisticati del Nuovo Testamento:, il passaggio che racconta di due discepoli demoralizzati in cammino verso Emmaus. Non riconoscono l’uomo che si unisce a loro lungo la strada, cionondimeno costui spiega loro il significato di ciò che è appena accaduto a Gerusalemme e lo fa chiamando in causa l’intera Torah e i profeti, a partire da Mosé. Mette cioè a loro disposizione una nuova interpretazione delle Scritture, mai sentita prima, in modo che essi possano trovare un nuovo significato nella loro vita e ricevere autorità da questa interpretazione. Al momento dello spezzare del pane essi riconoscono il loro compagno e lui svanisce. Conosciamo tutti la storia. Sappiamo tutti che si tratta di un testo fondamentale per la comprensione dell’Eucarestia: la presenza del Signore che interpreta le Scritture, rendendo possibile alle persone che lo ascoltano di ristrutturare la loro immaginazione e, entusiasmati da questo, andare a ristrutturare il mondo.
Ebbene, questa è una storia che offre non tanto una chiave di lettura delle Scritture, quanto piuttosto un principio ermeneutico che continua a operare anche nel tempo presente, su cui non abbiamo controllo, che esiste indipendentemente da noi ed è capace di trasformarci; e all’interno di questa storia pulsa un elemento sul quale vorrei attirare la vostra attenzione, poiché si tratta di un elemento indispensabile per chi di noi è impegnato a cercare di immaginare la fisionomia della fede cattolica nel terzo millennio. Il fatto è poco commentato, ma la stranezza della storia di Emmaus è che a parlare è un uomo morto. Credo sia molto importante non mettere in atto quella separazione che di solito facciamo nel parlare di Gesù risorto, immaginandolo nuovamente vivo e dunque mai morto. No, il fascino della dottrina della resurrezione sta nel fatto che è l’intera vita umana di Gesù, compresa la sua morte, a risorgere. La vita di Dio, completamente al di là dell’ordine della vita umana e dell’umana morte, non cancella la morte come se fosse una malattia da debellare; la accoglie, se ne fa carico. Luca ci offre la visione di un Gesù risorto che non ha smesso di essere un uomo morto e che a partire dalla sua condizione di uomo crocifisso istruisce i suoi discepoli e li riempie di forza con la sua presenza.
Vi pregherei di assecondarmi per un attimo ancora mentre tento di cavare un po’ di succo dallo scenario apparentemente assurdo che segue. Immaginiamo un carcerato del penitenziario di stato della Louisiana (che ha un nome singolare, Angola), un condannato a morte, come nel film che molti di voi avranno visto, Dead Man Walking. L’uomo viene condotto alla sedia elettrica e, nel preciso istante in cui i medici lo pronunciano morto, egli diviene totalmente libero dalle leggi, dalle strutture sociali e di polizia dello stato della Louisiana come anche dal governo federale degli Stati Uniti. Seguitemi ora con la vostra immaginazione: nel momento in cui si libera non solo dalla legge, ma dalle strutture sociali, da impegni di vita quali il matrimonio e quant’altro, egli si libera istantaneamente anche da qualsiasi risentimento. Immaginiamo che si tratti di un uomo che fin dall’inizio si era opposto al processo che l’ha condotto alla morte, che per tutto il tempo aveva proclamato la sua innocenza, che considerava la pena di morte un’usanza atroce: in questo caso, fino al momento della sua morte, egli si era considerato vittima di quanto gli era successo. La sua presenza era caratterizzata da una terribile lotta sostenuta per impedire che lo mettessero a morte, una lotta naturalmente del tutto vana, date la potenza e le armi a disposizione delle forze dell’ordine dello stato della Louisiana.
Nel momento in cui muore però egli si libera completamente da tutti quei giochi di potere e di vittimizzazione di cui era parte e non ha più bisogno di lottare contro quelle forze. Non ne ha bisogno perché esse non hanno più potere su di lui, non lo toccano più in alcunissima maniera. Il risentimento scompare completamente, perché il posto del risentimento è all’interno di quel gioco. Ma cerchiamo di andare oltre con l’immaginazione: dal momento che né la potenza della legge, né quella dei costumi sociali, né alcun’altra potenza lo intaccano, il nostro morto è in grado di cominciare a ristrutturare completamente la sua mente riguardo alla sua precedente esperienza di vita in Louisiana. Per la prima volta comincia a guardarla dalla prospettiva di uno che non è più risentito, né si fa più prendere dal risentimento. Forse quella sua vita precedente non lo interessa più e si sente libero di andare in un’altra direzione, senza il freno che ciò che aveva vissuto prima. Ma immaginiamo per un momento che sia ancora interessato alla Louisiana e che, vedendo ora le cose con una certa chiarezza, desideri aiutare a costruire uno stato migliore e più giusto. Decide così di farsi presente alle altre persone, persone che come tutti noi si trovano completamente avviluppate nelle strutture sociali, politiche ed economiche dominanti, per aiutarle a capire quello che stanno veramente facendo con quel loro modo di condurre la propria vita e la propria appartenenza a questo o quel gruppo sociale. In questa maniera, poco a poco, essi impareranno a disfare tutto ciò che di risentito e sacrificale agisce ad ogni livello, economico, sociale, militare e religioso e cominceranno a poter vivere liberi così come ora è libero lui.
Naturalmente si tratta di un esempio di pura fantasia, non meno fuorviante di quanto non sia utile. Tuttavia è una fantasia che si pone bene al servizio di un importante punto teologico. Quando parliamo del Gesù risorto che colloquia con i discepoli sulla via di Emmaus ci stiamo riferendo ad un uomo morto, completamente libero da ogni risentimento. Per questo motivo egli non si fa presente come accusa, alla ricerca di giusta vendetta contro i suoi persecutori. È presente come qualcuno che comincia a fare della storia della sua vita e della sua morte il mezzo per aprire l’immaginazione dei suoi discepoli, offrendo loro una nuova interpretazione dei testi che già conoscono, in modo che loro, non ancora morti, possano cominciare a vivere con la stessa assenza di risentimento, liberi come lui da legami di leggi e tradizioni sacrificali, proiettati verso la costruzione di un modo di convivenza umano non contrassegnato dal potere della morte.
Vi prego di notare un termine che ho usato in continuazione: risentimento. Il risentimento, tipicamente espresso nel nostro mondo con il tentativo di proteggersi dalla morte e quindi considerandosi vittime, è l’esatto opposto della grazia. Una presenza risentita è l’esatto opposto di una presenza gratuita. La presenza gratuita non cerca di proteggersi da alcunché, non insiste ad ottenere qualcosa per sé, non è parte del gioco del do ut des tipico della reciprocità risentita. Non cerca di affermarsi perché non ha timore di scomparire, di finire, di essere distrutta. A questo punto vorrei offrire degli accenni per una teologia morale cattolica che parta da questo luogo, quello di colui che, come persona morta, non ha alcun bisogno di affermarsi. La persona che è capace di offrire una critica costruttiva, non sacrificale, eucaristica, il cui scopo è la formazione di una fratellanza non segnata dalla morte. Lo possiamo fare nel momento in cui decidiamo di prestare attenzione al verso di Paolo citato più sopra: “Cercate le cose di lassù […] Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio.”
Verso una morale eucaristica
Torniamo ora al luogo dal quale vi dissi che vorrei cominciare il mio approccio alla morale teologica cattolica: lo spazio del queer [3] profondamente amato. I molti non gay tra voi scopriranno, con qualche piccolo salto di immaginazione e cambiando alcuni dettagli, che non si tratta di un luogo del tutto estraneo alla loro esperienza o ai loro interessi. Per molti gay l’esperienza è quella di venire in un modo o nell’altro uccisi dalla Chiesa. Tipicamente, nei discorsi ufficiali ci si riferisce a noi come ad un “loro” pericoloso, caratterizzato non tanto dall’essere umani, quanto dalla tendenza a commettere atti considerati gravemente ed oggettivamente disordinati. Altrettanto tipicamente, la nostra inclusione all’interno delle strutture della vita ecclesiastica è ottenuta a caro prezzo: l’acconsentire a non parlare con onestà, a camuffare la nostra esperienza con una serie di eufemismi, a condurre, attraverso l’impiego di un linguaggio in codice ad uso degli altri “interni” al sistema, una doppia vita. Il messaggio è chiaro: vai bene fino a quando non cominci a rompere le uova nel paniere parlando schiettamente, il che poi è come dire: “Se farai il nostro gioco ti proteggeremo, ma se dovesse “venire fuori” qualcosa sei fuori anche tu. Stai bene attento, non ti conviene dire nulla che possa creare scandalo.” Da notare che lo scandalo in questione non è affatto tale per una gran parte della popolazione eterosessuale, che tende a mostrarsi indifferente a tutte queste beghe, se non moderatamente divertita di fronte alla rivelazione di ciò che aveva sempre sospettato. Lo scandalo è tale per il gruppo che teme le conseguenze sulla propria struttura della diffusione della verità sulla sua composizione.
In ciò il messaggio implicito del meccanismo ecclesiastico è tutto il contrario del messaggio esplicito offerto dalla Chiesa: che Dio ti ama per quello che sei e, ovunque tu ti trovi nella vita, è a partire da quel punto che sei invitato a preparare con noi il banchetto del regno. Il messaggio latente invece recita: “Dio ti ama fintantoché tieni nascosto chi sei e neghi a te stesso la ricerca dell’integrità e della trasparenza di vita e di virtù che è tuo compito insegnare agli altri”. Non mi riferisco qui solo al clero o al mondo religioso, maschile come femminile, ma a tutti i casi di cui la Chiesa si fa garante —insegnanti delle scuole cattoliche, dottori e infermieri di ospedali cattolici, ragazzi che fanno parte di gruppi cattolici, giornalisti dei giornali cattolici e via dicendo.
Mi sembra che due siano sempre state le reazioni di fronte a tutto questo: lealtà patologica e rifiuto patologico. Conosciamo tutti la lealtà patologica: l’incapacità o la mancanza di volontà di riconoscere la differenza tra la sacralità violenta dell’istituzione ecclesiastica e la rivelazione dell’amore di Dio, con la conseguente soppressione di quest’ultimo a favore della prima. La partecipazione alla Chiesa viene dunque a fondarsi su un atto di sacrificio dell’“altro”, colui che causa perplessità, persino quando questo “altro” comprende gran parte, e magari la parte migliore, dell’“io” di molti dei suoi fedeli membri. Tutto questo è senza dubbio terribilmente ovvio. Più interessante è invece la reazione inversa, quella del rifiuto patologico. Si tratta della reazione, perfettamente comprensibile, di coloro che, profondamente scandalizzati dalla violenza ecclesiastica, abbandonano completamente la fede, almeno nella sua forma ecclesiasticamente riconoscibile, oppure cercano di formare gruppi di resistenza. Tipicamente lo scopo di questi gruppi è l’edificazione dell’anima e il recupero del benessere psicologico degli individui che sono stati traumatizzati a livelli profondi del loro essere dall’esperienza avuta con la voce morale e pastorale della Chiesa. E non solo della Chiesa, ma anche della società, mediata da genitori, scuola e mass media. Gran parte della voce che negli Stati Uniti si è levata a per chiedere un atteggiamento un minimo cristiano da parte delle autorità ecclesiastiche proviene da persone o gruppi di persone di questo tipo. Solitamente queste proteste si fanno forti delle scienze della persona, brandendo le verità della psicologia contro la barbarie e l’ignoranza ecclesiastiche.
Purtroppo qui si giunge a un vicolo cieco. La tendenza dell’istituzione ecclesiastica è quella di privilegiare il gruppo sociale attraverso il meccanismo di espulsione: il “noi” deve prevalere e l’“io” pericoloso deve andare perduto o essere espulso. La tendenza invece del gruppo che si identifica a partire dal suo status di vittima è invece quella di privilegiare l’“io” con l’espulsione, o cercando di arrivare all’espulsione, del “noi”, considerato elemento ostile e pericoloso e tramutato in un “loro”, un nemico implacabile. Ebbene, quando il “noi” trasforma un possibile “io” in un “uno di loro” e quando l”io” vede nel possibile “noi” solamente un “loro” perverso e pericoloso, allora ci troviamo di fronte ad una simmetria di nemici gemelli al di là di ogni possibilità di recupero. Siamo tornati agli strombazzamenti sordi tipici della lotta morale nel mondo della cosiddetta postmodernità. Ci siamo tolti la possibilità di spezzarci il cuore, ci siamo tolti la possibilità dell’Eucarestia.
C’è però una terza possibilità, non tanto teorica quanto piuttosto di prassi: l’occupazione dello spazio del cuore vicino a spezzarsi da parte del queer profondamente amato. In questo spazio il Cristo morto e risorto ci offre i mezzi per l’edificazione di un sacralità priva di vittime. Una sacralità in cui il “noi” crea e ricrea l’“io” e dove l’“io” riceve la propria identità di figlio di Dio da un “noi” al quale contribuisce senza risentimento, imparando a tendere la mano alle altre vittime e allo stesso tempo a identificarsi con gli altri. Si tratta senza alcun dubbio di un’impresa immensamente difficile, a livello sia emotivo che intellettuale che spirituale. Ma è il Vangelo stesso, visto come programma di ricostruzione tra le rovine, o in altre parole, letto eucaristicamente, ad offrirci gli elementi necessari ad affrontare questo compito.
Consideriamo questo straordinario versetto di San Matteo:
“E non chiamate nessuno ‘padre’ sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo.” (Mt 23:9)
Letto in mezzo alle rovine questo versetto offre una prospettiva piuttosto sorprendente: Gesù ci ha insegnato che non esiste corrispettivo terreno della paternità divina e che solo imparando la fratellanza con lui potremo venire a conoscenza della paternità divina. Questo sarebbe anche il significato anche della risposta di Gesù alla domanda di Filippo nel Vangelo di Giovanni:
“Signore, mostraci il Padre e ci basta.” (Gv 14:8)
Risponde Gesù:
“Chi ha visto me ha visto il Padre.” (Gv 14:9)
Se dunque non esiste paternità terrena in grado di riflettere Dio e l’unico modo che abbiamo di accedere alla paternità di Dio è imparare ad essere fratelli di Gesù, che si pone esattamente al nostro livello, vale a dire di un essere umano, ecco che possiamo cominciare a comprendere che l’apparente paternità di questo mondo non è una parternità in senso divino, bensì una fratellanza fratricida travestita da paternità. È esattamente questo che Gesù ribatte al gruppo di interlocutori che rifiuta il suo insegnamento secondo il quale non è possibile identificare il Padre con la paternità di gruppo che loro condividono, identificandosi come figli di Abramo:
“Voi avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui.” (Gv 8:44)
Permettetemi di insistere sulla straordinaria rottura antropologica prodotta da questo passaggio. Quando ci aggrappiamo a qualsiasi forma di paternità terrena, cercando di stabilire la nostra identità a partire da essa, in realtà stiamo ignorando il fatto che il principio della paternità terrena, l’elemento cioè che l’ha internamente strutturata fin dall’inizio è l’omicidio primigenio, quello di Abele per mano di Caino. Tutte le forme di paternità umana sono internamente strutturate da fratricidio e dunque, come paternità, non sono capaci di verità, poiché saranno sempre preoccupate di proteggersi da un esterno “altro”.
Nel caso pensiate che mi stia inventando tutto, torniamo a Matteo, al versetto appena precedente a quello che ho citato:
“Ma voi non fatevi chiamare ‘rabbì’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli.” (Mt 23:8)
In Matteo Gesù capovolge l’ordine che per noi sarebbe naturale. Tipicamente per noi la biologia viene prima della cultura, per cui la frase sulla paternità dovrebbe essere pronunciata per prima: “Uno solo è il Padre vostro, quello in cielo, e voi siete tutti fratelli. E non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è il vostro maestro.” La mentalità di Gesù è diversa. Per lui, qui come in Giovanni, la cultura viene prima della biologia. La fratellanza è la matrice della nostra formazione culturale. Per questo dobbiamo avere cura di mantenere un’assoluta uguaglianza in fatto di apprendimento delle cose di Dio, così da evitare false attribuzioni di divinità a modi non fraterni di presentare la verità divina. Ancora, entro questa matrice di apprendimento della fratellanza dobbiamo imparare a decostruire la falsa paternità di questo mondo, poiché anche la paternità biologica non è altro che fratellanza intergenerazionale, e come tale passibile di venire esercitata in modo costruttivo o distruttivo.
Ebbene, se tutte le forme di paternità umana sono strutturate internamente dal fratricidio, ci si aprono davanti straordinarie possibilità per la costruzione eucaristica della fratellanza. Ad esempio: credo di non essere l’unica persona ad avere immaginato e ricevuto tutta la forza dell’odio sociale, culturale ed ecclesiastico verso i gay come se fosse una forza paterna. Una forza paterna schiacciante, che pretendeva che mi piegassi o che morissi, o anche entrambe le cose contemporaneamente. E naturalmente non si ha diritto di rispondere alla forza paterna, perché nessuno di noi è allo stesso livello del padre. Nel caso si rimanesse schiacciati, poi, non c’è nemmeno possibilità di perdono, perché anche il perdono può solo verificarsi tra eguali, anzi, il perdono è proprio ciò che porta all’uguaglianza.
Se invece, come dice Gesù, questa immagine della forza paterna schiacciante ed assassina non è reale, ma solo una fantasia, dal momento che il paterno è solo fratellanza fratricida travestita da paternità, allora sì che si riesce a perdonare, in modo vero e costruttivo. Se la presenza eucaristica del Cristo morto e risorto è presenza fraterna che ritorna in mezzo a noi non come accusa, ma come perdono e come presenza che apre la nostra immaginazione e ci rende capaci di riconoscere le nostre complicità e di cominciare la costruzione del perdono, allora lo spazio del queer profondamente amato è davvero il posto da cui cominciare a ripensare alla Chiesa in senso fraterno. Possiamo cominciare a guardare all’intera struttura istituzionale non come un paterno e devastante “loro”, ma come un “noi” occasionalmente fratricida. Nel momento in cui cominciamo a percepire che ciò che sembrava essere paterno è solo cattiva fratellanza che si impone in maniera fratricida, possiamo cominciare a rivalutare ognuno dei suoi modi di agire, di insegnare, di trattare la gente. E non dalla prospettiva dell’accusatore che sta per diventarne vittima, ma da quella di chi perdona sempre e che—, anche se rifiutato ed ucciso —, si avvia ad offrire nuove possibilità di vita.
Vediamo un esempio. Se l’insegnamento della Chiesa avviene e può solo avvenire ad un livello di fratellanza, allora abbiamo non solo il diritto, ma il dovere di impegnarci nel compito di reimmaginarlo in modo tale che quello che dice e il modo di trasmettere quello che dice riflettano la voce di Cristo. Egli immagina se stesso unicamente come nostro fratello, mai come nostro padre. Col dire questo non sto certo introducendo nuovi criteri di discernimento teologico; sto semplicemente applicando la distinzione che Gesù stesso ha insegnato:
“Sulla cattedra di Mosé si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno.” (Mt 23:2-3)
Dal momento che ad introdurre questa distinzione è Dio Vero da Dio Vero, colui che è uno con il Padre, faremmo bene ad imitarlo. Notiamo anche un’altra cosa: la raccomandazione di “fare ed osservare quanto vi dicono” è un insegnamento variabile. Quando Gesù introduce la distinzione tra “quello che dicono e quello che fanno”, ci offre la possibilità di riconoscere che anche “quello che dicono” possa giungerci distorto da “quello che fanno”. Il sospetto cioè che il loro comportamento sia la cornice in cui si forma il loro insegnamento. Il sospetto ideologico non è concetto estraneo al Vangelo, anzi, è vicino al cuore del progetto di rimozione degli idoli che caratterizza la presenza di Gesù. Ma il sospetto ideologico non ha lo scopo di sferrare attacchi; il suo fine è la ricostruzione auto-critica del sé. Ci basta dunque riconoscere che queste persone non sono che fratelli intrappolati da forze che non comprendono, le stesse che tendono a distruggerci tutti e davanti alle cui divinità tutti, in un’occasione o nell’altra, ci siamo inginocchiati; ci basta comprendere che la voce di quei fratelli tende a riprodurre tanto la violenza di quelle forze quanto la verità di Dio; ci basta questo per poter cominciare ad esaminare il meccanismo violento e ad esporlo, perché esso è solo una perversione della fratellanza e come tale suscettibile di essere analizzato dall’uomo e di venire ridiretto verso una fratellanza che tende alla costruttività negli altri.
Il discorso proveniente dalla posizione del queer schiacciato e vittimizzato non può che esprimersi in una voce di accusa, che vuole approvazione. Essa guarda al closet [4] ecclesiastico solo come a qualcosa di irrimediabilmente ipocrita e violento e non può fare altro che protestare contro di esso, rifiutando anche solo il pensiero che da ciò possa uscire qualcosa di evangelico, emancipatorio, qualcosa di vero. Ma c’è un’altra possiblità: il closet ecclesiastico, come realtà che funziona a livello fraterno e non paterno, è aperto alla discussione razionale. Per esempio: nel 1992, durante la campagna elettorale vinta da Bill Clinton, il Vaticano pubblicò un documento diretto ai Vescovi degli Stati Uniti. Il documento costituiva il tentativo di invitare l’elettorato cattolico a non eleggere candidati favorevoli all’introduzione di leggi che proteggessero il diritto al lavoro ed altri diritti per la popolazione gay. Tutto questo era espresso in modo piuttosto esplicito. Ebbene, il documento non fu affatto ben accolto. Un certo numero di Vescovi e la Conferenza dei Superiori maggiori religiosi rifiutarono nettamente non solo la pratica elettorale abusiva che vi veniva suggerita (informata evidentemente da qualche Vescovo simpatizzante repubblicano), ma il contenuto stesso del documento. Rigettarono l’idea che possa essere giusto battersi in favore di una legislazione che discrimina parte della popolazione.
Ma vediamo alcuni passaggi del documento, rivelatori del punto di vista degli autori:
Di regola, la maggioranza delle persone omosessuali che cercano di condurre una vita casta non pubblicizza il proprio orientamento sessuale. Ne consegue che il problema della discriminazione sul lavoro, la casa eccetera solitamente non si pone. Le persone omosessuali che affermano la propria omosessualità tendono ad essere proprio quelle che giudicano il comportamento o lo stile di vita omosessuale come “almeno una realtà perfettamente innocua, se non totalmente buona” e dunque meritevole della pubblica approvazione. [5]
E dunque, finalmente con una certa chiarezza, il Vaticano non parla di specifici atti sessuali, ma di strategie di sopravvivenza in un mondo che si ammette violento. La persona che rimane in silenzio all’interno del closet non avrà problemi; quella che è “ out” si merita invece tutte le difficoltà che le capiterà di affrontare e nessuna legislazione dovrà prendere le sue difese.
Invece di trattare gli autori come mostri, cerchiamo di metterli in gioco come fratelli. Affermano qualcosa che è indipendente da atti omessi o commessi, dato che non si può automaticamente dire né che il gay non dichiarato sia più incline del gay dichiarato a commettere atti ritenuti peccaminosi, né che lo sia di meno. Insomma, affermano, come parte dell’insegnamento fraterno della Chiesa, che il closet è il posto più adatto per il fiorire e il benessere umani e cristiani delle persone di orientamento omosessuale. Quelli che fanno “coming out” ed accettano di correre i rischi connessi a questa scelta si collocano in un luogo meno propizio al benessere e al fiorire umani e cristiani. È questo che dicono. E noi possiamo chiedere: ma è proprio vero? Possiamo chiedere ad esempio se la castità, virtù che è doveroso imparare ed esercitare per tutti i cristiani, compresi quelli coniugati, non possa essere meglio appresa ed esercitata all’interno del processo di apprendimento di un modo onesto di relazionarsi a tutta una rete di amici, anche intimi, e magari al partner; un luogo dove si possa discutere sul centro di gravità emozionale ed erotica di coloro che ne sono coinvolti. O se, al contrario, la castità non si impari meglio distanziandosi dal linguaggio e preferendo mantenere una presenza anonima e reticente anche con le persone più vicine a noi nel lavoro, nello svago, in famiglia e via dicendo. La risposta non è ovvia ed è per questo che andrebbe discussa.
Potremmo anche chiedere se le conseguenze psicologiche della chiusura nel closet favoriscano il processo personale di scoprirsi figli di Dio più o meno delle conseguenze psicologiche del “coming out” e del cominciare a capire ciò che potrebbe significare essere figlio di Dio nel territorio molto più rischioso di un mondo sociale in cui la gente parla molto francamente di queste cose. Potremmo chiedere: come riuscite a conciliare il mantenimento del closet e l’esplicito insegnamento del Vangelo sul fatto per cui tutto ciò che è nascosto verrà scoperto e quello che viene detto segretamente verrà annunciato sui tetti (Lc 12:3)? Magari un modo c’è, ma non lo avete dimostrato a partire dalla cristianità della vostra posizione, e sarebbe invece importante capire di che posizione si tratta per vedere se si pone o meno in continuità con l’insegnamento di Cristo.
Potremmo anche notare che, nella lettera, l’affermazione del tutto corretta secondo la quale la persona di orientamento omosessuale, come tutti i cristiani, deve portare ogni giorno la sua croce, può essere soggetta a due interpretazioni: l’interpretazione del closet indica che il sacrificio richiesto da Dio è quello dell’“io” considerato come qualcosa che cerca di svilupparsi in un modo necessariamente disordinato. Applicata alla persona di orientamento omosessuale, sarebbe questo il senso della frase:
“Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua.” (Lc 9:23)
Esiste però un’altra interpretazione, quella degli omosessuali dichiarati. Qui la negazione di sé e l’accettazione della croce corrispondono, tra le altre cose, all’insistenza su un modo di vivere degno ed onesto, in un ambiente sociale che tende ad annoverare fra i trasgressori le persone gay che si sforzano di essere oneste così come tutti coloro che cercano di vivere con una certa integrità, e per questa ragione a disprezzarli, calunniarli e crocifiggerli. Ancora, non è affatto ovvio che l’interpretazione che richiede l’aspirazione all’olocausto del sé sia necessariamente più cristiana di quella che vede la persona correre ogni giorno il rischio di subire varie forme di violenza pubblica per cercare di creare una vita di fratellanza per sé e per gli altri. Anche su questo si può dialogare.
Quando insomma diventa chiaro che non abbiamo a che fare con un mostruoso blocco sacro ma che si parla di strategie di sopravvivenza, ognuna delle ha implicazioni diverse circa il modo di intendere il benessere e il fiorire umano, allora il closet diventa qualcosa su cui si può discutere. Certo, possiamo sempre trovare fratelli e sorelle che non vogliono parlarne, per i quali forse il benessere dei loro fratelli e sorelle è meno importante del mantenimento della dottrina e per i quali la raccomandazione di non fare coming out è solo un modo di evitare discussioni in materia. Se ci sono persone che pensano davvero che l’uomo sia fatto per il sabato e non il sabato per l’uomo, allora diventa molto difficile procedere. Ma di fatto ci saranno sempre fratelli e sorelle, anche fra le più alte cariche ecclesiastiche, che capiranno che è loro compito aiutare ad interpretare le dottrine in maniera che non diventino idoli che richiedono sacrifici e che agiscono contro il benessere di fratelli e sorelle. Con questo tipo di persone il dialogo sulla maniera di concepire il benessere umano è certamente possibile.
Ci troviamo tuttavia a muoverci su un terreno irto di difficoltà, in quanto,all’interno di un dialogo, chi rappresenterà infatti la posizione del closet? Non è forse vero che lo può fare solo qualcuno che ne è all’interno? Ma il fatto stesso di parlare significherebbe per questa persona fare il suo coming out. Oppure, a farsi portavoce del closet in un dialogo dovrebbe essere un eterosessuale che riconosca di poter solo limitatamente rappresentare in maniera adeguata persone del cui genere di vita non può avere una conoscenza profonda. Una mentalità accusatrice esulterebbe davanti a questa evidente difficoltà. Ma la mentalità del perdono, che cerca di comprendere il meccanismo di espulsione come fenomeno che si svolge essenzialmente a livello fraterno, vedrebbe in questa difficoltà un segno del fatto che si deve procedere con estrema delicatezza e garbo nei confronti dei nostri fratelli che non sono in grado di parlare per proprio conto. E quando dico “non sono in grado” non lo intendo solo nel senso formale per cui parlare sarebbe fare coming out, ma nel suo significato più profondo: forse queste persone non sono in grado di accedere ad un “sé” produttivo, capace di creare fratellanza attraverso il linguaggio. Forse la loro coscienza è stata così profondamente ingabbiata da quella che credevano essere paternità e che è invece solo una forma di fratricidio da diventare incapaci di immaginarsi come figli amati se non rigettando completamente se stessi. È questa la ragione per cui molte persone si sono uccise, vuoi fisicamente vuoi moralmente; abbiamo allora davvero bisogno di ricordare il mormorio del vento leggero:
“Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta. Proclamerà il diritto con fermezza.” (Is 42:3)
Ora, se raggiungiamo questo punto, lo spazio vicino allo spezzarsi del cuore, dobbiamo immaginare creativamente l’esistenza di qualcosa di molto più glorioso e molto più misericordioso. Di fronte a chi non ha voce dobbiamo soprattutto evitare di essere troppo energici con i deboli (I Cor 10:23-30). Dobbiamo piuttosto rielaborare la teologia morale cattolica in modo che diventi capace di liberare la coscienza delle persone che, nel profondo del loro essere, hanno paura di accogliere la coscienza di figli di Dio. Dobbiamo offrire loro, senza minacce, la possibilità di entrare in quel movimento dinamico che ho cercato di abbozzare, che permette il distacco dagli idoli per ricevere finalmente lo stato di figlio divino. Dobbiamo imparare a presentare in maniera molto più chiara qualcosa che qui ho solo cominciato ad abbozzare superficialmente: l’amorevole benevolenza e l’audacità di Dio che ci invita, così come siamo, a creare fratellanza per mezzo del nostro fratello crocifisso e risorto, che ci apre la mente ad immaginare la nuova Gerusalemme sulle rovine di tutte le nostre idolatrie e i nostri atti di viltà. Un’impresa non da poco per il terzo millennio.
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[1] Questo saggio è tratto da una conferenza tenutasi a Città del Messico nel novembre 1997 [ndt].
[2] Raising Abel (New York: Crossroad, 1996). Lo stesso libro venne è stato pubblicato in spagnolo col titolo El Retorno de Abel (Barcelona: Herder, 1999).
[3] Queer è termine inglese che significa “strano”, “insolito”, ma che è stato storicamente usato anche come dispregiativo per definire gli omosessuali (l’equivalente di frocio o finocchio). Dagli anni ’90, nel contesto anglosassone, è diventato un termine politico impiegato dai militanti dei movimenti di emancipazione omosessuale. In italiano viene usato come termine-ombrello per indicare le persone il cui orientamento sessuale e/o identità di genere differisce da quello strettamente eterosessuale: gay, lesbiche, bisessuali, transessuali, transgender e/o intersessuati.
[4] Letteralmente, “armadio” o “sgabuzzino”. Indica tutto ciò che è tenuto segreto, spesso con connotazioni di vergogna o vizio. Nel linguaggio gay, è l’omosessualità non dichiarata, da cui le espressioni “to come out of the closet” o “coming out” che indica la dichiarazione esplicita e sociale della propria omosessualità. Il coming out non va confuso con l’outing, con cui il movimento di liberazione omosessuale statunitense definisce la pratica politica di rivelare pubblicamente, per ritorsione, l’omosessualità di alcune persone segretamente omosessuali (soprattutto religiosi o politici), che attaccano pubblicamente l’omosessualità [ndt].
[5] “Responding to Legislative Proposals on Discrimination Against Homosexuals” paragrafo 14, in Origins vol. 22, n. 10 (6 agosto 1992). La traduzione è mia [ndt]. La citazione all’interno del paragrafo è tratta dal documento della CDF “Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali” del 10 ottobre 1986.
© 1999-2001 James Alison. The original English text was published in the book Faith beyond Resentment. 2006 Translated by Eliana Crestani.