Lo spazio della vergogna e il dono dello Spirito

Nell’introduzione al mio libro On Being Liked [1] riportavo il racconto della discesa dello Spirito Santo sui gentili così come descritta da Luca negli Atti degli Apostoli. Cercavo di dischiudere la storia in maniera che potesse acquisire di significato per coloro che tra noi gay e lesbiche all’interno della Chiesa stanno scoprendo se stessi in un modo che lascia molti dei pubblici ufficiali ecclesiastici perplessi, arrabbiati o ammutoliti. Quello di Luca però non è l’unico resoconto della discesa dello Spirito Santo contenuto nel Nuovo Testamento. Paolo, ad esempio, guarda allo stesso evento facendolo risuonare in maniera alquanto diversa. Sono queste risonanze che mi sembra offrano alle persone gay e lesbiche terreno fertile per poter capire quanto siano amati.

Vorrei dunque esaminare con voi un pezzo di teologia cristiana fondamentale, che concerne il dono dello Spirito Santo. Il mio punto di partenza sarà una frase piuttosto particolare di San Paolo ai Galati:

Quelli invece che si fondano sulle opere della legge, stanno sotto la maledizione, poiché sta scritto: “Maledetto chiunque non rimane fedele a tutte le cose scritte nel libro della legge per praticarle.” (Gal 3:10)

Sembra che il consiglio di alcuni oratori cristiani Ebrei ai cristiani Galati fosse quello di obbedire alla legge di Mosé anche dopo essere stati battezzati ed essere venuti a conoscenza del Dio di Israele, poiché, come sta scritto nel Deuteronomio, coloro che non seguono la legge di Mosé saranno maledetti. [2] L’estratto della legge che questi oratori citavano ai loro ascoltatori era probabilmente Dt 27:26. Paolo si schiera contro questa insistenza a far circoncidere i Galati che avevano ricevuto il battesimo, a introdurli nel popolo di Israele e a costringerli ad obbedire alla legge di Mosé, e prende posizione sostenendo che sono quelli che si fondano sulla legge a stare sotto la maledizione.

È curioso notare che, a prima vista, il testo citato da Paolo sembra non essere di alcun sostegno alla sua tesi; la versione dal Deuteronomio che adopera è piuttosto diretta:

“Maledetto chiunque non rimane fedele a tutte le cose scritte nel libro della legge per praticarle.”

Questo sembra presupporre che tutti coloro che osservano e obbediscono a tutte le cose scritte nel libro della legge sono benedetti e che solo chi manca di osservarle e obbedirle sarà maledetto. Paolo aveva altre volte raccontato di come egli stesso fosse stato un tempo molto zelante nell’obbedire alla legge, e non aveva quindi alcun dubbio sul fatto che fosse possibile osservare ed obbedire a tutte le cose scritte nel libro della legge. Perché mai allora avrebbe dovuto usare a rinforzo della sua affermazione secondo la quale è chi si fonda sulle opere della legge ad essere sotto la maledizione un verso in cui la legge maledice formalmente coloro che non obbediscono? Non sembra un ragionamento logico.

Ebbene, se definiamo un testo Sacra Scrittura intendiamo tra le altre cose che esso la sappia più lunga di noi e che quando quello che dice non rientra nella nostra logica è bene affrontarlo fino a che non ceda la sua logica nelle nostre mani; fino a che cioè non arriviamo a lasciarci aprire dalla sua logica piuttosto che pensare di poterla dominare. A mio avviso questo è proprio uno di quei testi illuminanti in cui riusciamo a cogliere un ordine di pensiero diverso da quelli a cui siamo abituati e dove quel diverso ordine di pensiero riesce a gettare una nuova luce su tutto un insieme di argomenti che ci toccano molto da vicino.

Paolo infatti non cita quel testo, come di solito si immagina, come una sorta di prova a suo favore, un modo per dire “vedete?, il testo è d’accordo con me.” In realtà il testo non è d’accordo con lui. Paolo lo cita piuttosto come prova interna di una struttura antropologica. Lo cita per mostrare come, proprio perché maledice chi non obbedisce alla legge, il testo stesso della legge si rivela parte di un sistema di bontà che divide tra il bene e il male; di conseguenza anche coloro che approvano la legge e che ne ricevono la benedizione vivono di fatto nel raggio di una maledizione. Paolo insomma cita quelle parole prendendone le distanze e dicendo: “Guardate cosa ci rivela questa frase a proposito del tipo di sistema di cui è parte integrante”.

Direi che si tratta di una sottigliezza di grande acume, che, una volta capita, rende luminosamente intelligibile tutto quanto Paolo sta per dire a proposito di Gesù come nostra maledizione e di come sia attraverso questa che lo Spirito Santo fluisce fino a noi. Paolo mostra segni di una fenomenale intelligenza strutturale. Se la legge maledice, crea cosi’ facendo un sistema di buoni e di cattivi, dove inevitabilmente il “buono” dipende dal “cattivo”. Se io per il mio bene mi baso sul mantenimento e sull’obbedienza a tutto quello che il sistema propone significa che la mia bontà si “pone contro” la cattiveria di qualcun altro; dunque ne dipende e, dipendendone, ne fa parte.

Questo significa anche che, fintantoché avrò degli obblighi verso il sistema di bontà, non sarò mai di fatto capace di obbedire al comandamento che tutti concordano nel considerare la summa dell’intera legge: “Amerai il prossimo tuo come te stesso.” (Gal 5:14.) La legge come sistema di bontà mi impedirà di riconoscere il prossimo che è come me e che ha bisogno di amore, in quanto più di qualche volta nasconderà quel prossimo dietro al velo dell’“altro maledetto”. In pratica, l’effetto antropologico del sistema di bontà nel vissuto di ciascuno è la nullificazione della bontà a cui il comandamento ci rimanda.

Abbiamo dunque qui una classica intuizione paolina per cui nessun sistema di bontà, proprio in quanto fautore di un mondo di buoni e cattivi, di benedizione e maledizione, può provenire da Dio, poiché Dio è solo benedizione, solo promessa; e il vero pericolo per la vita morale di qualsiasi società non proviene in primo luogo da persone “cattive”, in un certo senso fin troppo scontate per doversene preoccupare, ma piuttosto da sistemi di bontà che, dipendendo da un “altro malvagio”, diventano terribilmente pericolosi. Pericolosi ovviamente per coloro che ne sono i necessari cattivi, poiché la bontà diventa zelo persecutorio, come aveva dimostrato lo stesso Paolo nella sua carriera di Saul. Ma i sistemi di bontà sono ancora più pericolosi, in maniera meno ovvia, per i “buoni”, in quanto è poco probabile che essi si rendano conto del fatto che, lungi dal venerare Dio, dal dipendere da Dio, dall’avere un’identità che viene da Dio, il Dio che non si pone contro assolutamente nulla, in realtà ricevono la loro identità da quel “porsi contro” violento sul quale si fondano. In altre parole, sono loro a rischiare maggiormente di diventare nichilisti violenti, considerandosi in questo fedeli servitori del volere di Dio.

A che punto ci lascerebbe l’intuizione di Paolo se non ci fosse altro da dire a proposito? Ci lascerebbe in un mondo dove esiste solo una religione della legge, dell’appartenenza a un gruppo di prescelti e di testi sacri. Questa struttura antropologica ci abbandonerebbe nella terribile condizione di trovarci sempre divisi contro noi stessi, perché anche quando volessimo essere buoni scopriremmo che la nostra stessa bontà si pone contro qualcun altro e ci porta a trattarlo in un modo che ci rende impossibile l’essere buoni; che anzi, ci porta a odiare il nostro prossimo e ci riduce al livello del nostro odio, per quanto vogliamo che questo non accada. Sarebbe il mondo dello scandalo permanente, dell’inevitabilità del doppio legame, della bontà pericolosa e non ci sarebbe scampo da quel “altro” in contrasto al quale doversi definire per poter ricevere il marchio dei buoni.

Qualsiasi sistema di bontà insomma si rivela una trappola sacra: sulla carta si dichiara cultura dell’amore, della pace e così via, ma nella pratica delle cose innalza muri di differenza per dare l’impressione di riversare amore e pace su chi si trova al di qua della parete, e al tempo stesso agendo secondo schemi di desiderio completamente diversi nei confronti di chi rientra nella categoria del necessario “malvagio altro”. In fondo, è l’azione della folla violenta contro i “sacrilegi” di quel malvagio che rende “sacra” la mia bontà. Di fatto, naturalmente, questa divisione netta tra l’essere “buono con quelli al di qua” e “feroce con quelli al di là” non funziona mai esattamente così e chi si trova ad essere più vicino e più caro agli zelanti “insiders” paga spesso un prezzo psicologico altissimo per mantenere quell’intimità.

Ciò che ha permesso a Paolo di capire questo funzionamento è qualcosa di bizzarro davvero, e che si trova al centro di ogni aspetto della nostra fede. Paolo ha capito una cosa fondamentale rispetto a quello che Gesù aveva fatto con l’accettare volontariamente la morte sulla Croce. Ne fa riferimento in Galati 3:13:

Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno…

Ora non si tratta di un semplice gioco di parole di Paolo, come se fosse riuscito a scovare un testo adatto da citare in risposta ai suoi avversari che avevano sollevato la questione della maledizione della legge. Come sempre in Paolo, tutti gli assi linguistici o testuali nella sua manica vengono usati per indicare qualcosa di più grande delle parole, più grande a livello di antropologia fondamentale.

Paolo vuole suggerire che uno dei modi più autentici di comprendere il significato dell’accettazione volontaria della morte da parte di Gesù è vedere come Dio renda in questo modo abitabile per noi lo spazio dei maledetti. Lasciatemi elaborare questa nozione, perché così come sta potrebbe essere scambiata per un’affermazione secondo cui Dio avrebbe sistemato le cose in modo da rendere necessario che qualcuno venisse maledetto, avrebbe poi mandato Gesù in terra a svolgere quel ruolo e così, adesso che è tutto finito, la maledizione sarebbe cancellata.

Paolo è lontanissimo da quest’idea. Possiamo affermarlo perché sappiamo che Paolo non considera la legge come dono di Dio, anzi, ne parla specificatamente come di un testo promulgato per mezzo di angeli attraverso un mediatore, negandole in questa maniera ogni origine divina (Gal 3:19). Per Paolo la promessa della benedizione è venuta e viene direttamente da Dio a tutte le genti a causa di Abramo e non contiene alcuna duplicità, nessuna ambivalenza e nessun doppio legame. La legge non era parte della promessa divina; fu una sorta di stampella angelica aggiunta con Mosé per contenere la violenza. Il fatto che la legge contenga violenza in entrambi i sensi del termine—cioè tenga a freno la violenza (limitando la vendetta) e dia ricetto alla violenza (autorizzando le maledizioni)—è un elemento a dimostrazione di come essa sia impastata di ambivalenza e doppio legame e di come quindi non possa provenire da Dio.

No, per Paolo non si trattava affatto di Dio che sistema le cose in modo da far maledire Gesù. L’ambito della maledizione riflette quello che è la vita in un mondo in cui il bene e il male sono definiti in contrasto l’uno con l’altro: una realtà strettamente antropologica e dunque umana. Per noi, occupare lo spazio di colui che è maledetto, come Paolo definisce Gesù—e Paolo lo designa sempre come il crocifisso—è uno straordinario atto antropologico autorizzato da Dio, un atto che, se consideriamo varie esperienze di vita vissuta, ha per noi pienamente senso.

L’esempio che porto con più frequenza, poiché si ritrova nell’esperienza di così tante persone, è quello della checca della classe [class fairy]. Quasi a tutti è capitato, negli anni della scuola, di entrare in contatto con gruppi in cui qualcuno occupa lo spazio della checca della classe, senza che questo abbia niente a che vedere in particolare con l’orientamento sessuale o l’identità di genere della persona, anche se termini quali “finocchio”, “donnicciola”, o anche “imbranato” e simili rimbalzano ovunque in quello che potremmo chiamare il “fai-da-te della costruzione della checca della classe”. Né sono solo i maschi a creare in questo modo l’unità del loro gruppo: molte donne mi hanno raccontato di simili situazioni all’interno di scuole femminili.

Sappiamo tutti come funziona: essere buoni, essere fichi, stare dalla parte giusta, essere nella compagnia giusta e via dicendo dipende fondamentalmente dal non essere la checca della classe. È come se tutti sapessimo che l’indice vaga in cerca di qualcuno su cui puntare; e siamo pronti a fare qualsiasi manovra per evitare che si fermi su di noi. Ma alla fine su qualcuno punterà, e questo qualcuno dovrà portarsi addosso tutto il peso della maledizione. E questo significa che noi potremo essere i buoni e i fichi e così via e loro quelli che dovranno subire tutte le angherie e essere infelici e magari anche traumatizzati e suicidi, e in qualche caso armati, omicidi e soggetti ad esplosioni incontrollate di rabbia violenta.

Ora, nessuno entra volontariamente in quello spazio della maledizione. La persona che vi viene gettata prova tutto il dolore e la vergogna dell’ostracismo, dell’emarginazione, della perdita, di varie forme di morte. Ci si sente distrutti, ed è esattamente quello che accade. Non vi è assolutamente nessuna redenzione in quella sofferenza, in quel dolore e in quella perdita: l’identità che il gruppo dà a quella persona è un’identità fatta di nulla e di morte. Ognuno di noi farebbe qualsiasi cosa per evitare un tale destino, compreso fare in modo che sia qualcun altro ad occupare quello spazio nel gruppo; e se non ci riusciamo, ci ritroviamo ad esservi spinti dentro urlanti e scalcianti e a venirne distrutti.

La profonda intuizione che Paolo ci offre è quella di un Gesù che entra volontariamente in quello spazio e che lo occupa pacificamente, pienamente consapevole che si tratta dello spazio psicologico che la legge, appoggiata dalla psicologia del gruppo, designa come “maledetto da Dio”. E dopo aver occupato quello spazio i suoi discepoli lo vedono tornare fra loro ancora pacificamente, senza volontà di vendetta, come uno che chiaramente ha realizzato qualcosa per loro, qualcosa che loro possano poi trasmettere agli altri. In altre parti delle Scritture Gesù è descritto come agnello immolato (Ap 5:6.) o scacciato dall’accampamento come il capro espiatorio del rito levitico (Eb 13:13) e noi siamo chiamati a seguirlo. Come se, con il suo vivere nella maledizione rifiutandosi di considerarla una maledizione o di essere soggetto ad essa come se fosse una maledizione o di reagire ad essa come uno colpito da maledizione, il cancello della trappola rimanesse incastrato in posizione aperta e non potesse chiudersi mai più. Dimodoché la maledizione perda la sua forza e il sistema di bontà divenga impotente o irrilevante.

Come se si arrivasse a intravedere una checca della classe calma e serena, contenta di aver occupato e di occupare lo spazio della vergogna, felice di esserci. Questo perché si rende conto benissimo che i ragazzi in classe devono per forza scegliere una checca, è l’unico modo che conoscono per rimanere uniti, per mantenere buono il “buono” e cattivo il “cattivo”, l’unico metodo usato per strutturare il loro legame, le loro manovre per ottenere prestigio, il loro agire. Ma se qualcuno riuscisse a occupare lo spazio della vergogna, lo spazio della maledizione, senza porsi in alcun modo in reazione ad esso, allora, nel momento in cui uno della classe cominciasse a notarlo, tutti vedrebbero che allo spazio della vergogna, allo spazio della maledizione, si può sopravvivere, che la sua tossicità è in quieta evanescenza. Nel momento in cui giungessero a percepire ciò, il loro sistema di bontà comincerebbe a crollare e a loro rimarrebbe il compito, esaltante e straziante allo stesso tempo, di cominciare ad accogliere in se stessi un’identità che non si pone contro nessun malvagio altro; in altre parole, verrebbe loro donato il progetto vocazionale di inventare un modo totalmente nuovo di agire, un copione interamente diverso.

Se da una parte possiamo immaginare gli elementi fisici dell’atto di occupare il luogo della maledizione, più difficile ci risulta fermarci a considerare lo spirito con il quale questo venne fatto da colui che vi entrò volontariamente. Quali erano lo spirito, l’atteggiamento, i desideri con cui questo essere umano, Gesù, fu in grado di entrare volontariamente in questo spazio della maledizione e di lasciarsi uccidere?

Consideriamo la questione del potere. Sappiamo tutti cosa significhi avere potere: significa essere forti abbastanza per non occupare il luogo della maledizione e per mettervi qualcun altro al posto nostro. Potere significa vincere. Ma il senso di potere che accompagna l’entrata nel luogo della maledizione è incredibilmente più forte di quello, poiché è il potere di essere in pace e di essere creativi mentre ci si trova nel non-essere, un potere che nessun essere umano possiede. Il potere di “perdere” volontariamente è il potere di uno talmente più forte dei vincitori da non porsi nemmeno in rivalità con loro, da non essere in nessun modo allo stesso livello loro, e neanche al di sopra, né contro di essi.

Lo spirito con cui questo è stato fatto era uno spirito di indifferenza rispetto alla benedizione o alla maledizione da parte del sistema della bontà, perché non fondato sull’aspettativa che dovesse essere il sistema della bontà a dare identità; uno spirito preoccupato solo di mostrare che è possibile essere avvolti da Dio in una benedizione che non viene in alcun modo definita, positivamente o negativamente che sia, da quel sistema di bontà. In altre parole, l’intenzione con cui questo spazio venne occupato era quella di portare beneficio a coloro che non avevano idea di quanto dipendessero dal loro sistema di bontà e che quindi sarebbero stati ben poco capaci di apprezzare quello che qualcuno stava facendo per loro. Immaginare che qualcosa è stato fatto “per me” è una tra le cose più difficili da realizzare; perché questa maniera del dare non è tipica di una reciprocità umana, del classico dare e ricevere che non abbiamo problemi a concepire. È in realtà l’aprirsi di un tipo di reciprocità del tutto nuova, una capacità di ricevere e di dare che esula dai normali parametri umani dei sistemi del dono.

Consideriamo ora la questione dell’immaginazione. Come ci si doveva sentire ad essere una persona alla quale tutto, in tutti i sistemi che gli davano identità e forza, gli diceva che era un fallito, un maledetto, uno che non sarebbe mai arrivato da nessuna parte, uno abbandonato da Dio, uno che aveva portato gli altri fuori strada? Ad essere una persona le cui speranze erano state frantumate e soffocate, tradita e abbandonata dagli amici? E come doveva essere possedere comunque un’immaginazione la cui forza derivava dalla fiducia in un “Altro” totalmente al di fuori dell’ordine in cui viviamo, che lo invitava a immaginare la sua morte umana come il luogo dove gli sarebbe stato dato di essere creativo, così che abitare il deserto di una morte vergognosa, abitare pacificamente il non-essere, sarebbe divenuto occupare lo spazio del principio per sé e per altri?

Naturalmente con ognuna di queste domande ci troviamo ad avere a che fare con qualcosa che è difficile esprimere propriamente a parole; abbiamo a che fare con la forma, se vogliamo, del donarsi a noi dello Spirito Santo. L’unico soffio che può far crollare i sistemi di bontà—e naturalmente i closet nel senso attuale del termine sono parte di sistemi di bontà—è il respiro dell’agnello, ritto in mezzo alle rovine come immolato. I Vangeli sinottici ci dipingono tutto questo in maniera vivida, con Gesù sulla croce che rende il suo Spirito al Padre, in preparazione di quello che sarà poi lo Spirito alitato su di noi.

Ora, per Paolo, come per noi, nulla di tutto questo è accessorio o secondario alla vita cristiana, qualcosa di cui da buoni cristiani siamo a conoscenza. Tutto questo arriva dritto al cuore del nostro stesso divenire cristiani. Lo Spirito Santo, lo Spirito di Dio, è stato messo a nostra disposizione prima di tutto da un particolare comportamento creativo umano, guidato, se si vuole, da un insieme di atteggiamenti e parametri del desiderio normalmente al di fuori della nostra visuale, ma che abbiamo cominciato ad intravedere dopo che Gesù ha compiuto il suo “diventando lui stesso maledizione per noi”.

Come Paolo non si stanca mai di ripetere, quello che ci accade quando ascoltiamo questa storia, quando Gesù viene ritratto di fronte ai nostri occhi come il reietto, come una distrutta checca della classe, e quello che succede quando crediamo che Dio stesso, il Creatore dell’Universo, sia la piena generosità dietro al “diventare maledizione” di Gesù, è il ritrovarci a subire un processo di liberazione dalla stretta dei sistemi di bontà e cattiveria contro gli altri che ci guidavano, da tutti i sistemi che benediscono attraverso la maledizione. Dopotutto la legge, il sistema della bontà, ha già dato il peggio di sé e sappiamo che le si può sopravvivere: le fauci della trappola sono bloccate in posizione aperta. Scopriamo insomma che la legge è diventata irrilevante per noi, che non ci serve più, che la si può gentilmente lasciar andare. Ci ritroviamo anche ad avere il potere di desiderare di entrare noi stessi in quella dinamica, fiduciosi che Colui che mantiene in essere Gesù, contro assolutamente niente, manterrà in essere noi, contro assolutamente niente, e così sostenendoci ci darà un nuovo essere e una nuova identità.

Ecco perché siamo battezzati nella morte di Cristo, come fa notare Paolo (Rm 6:3). Significa che accettiamo di unirci al gruppo del maledetto, di nuotare con il brutto anatroccolo. Accettiamo di subire la morte in anticipo, di occupare volontariamente il luogo della vergogna e della maledizione, di essere per sempre legati alla checca della classe. E nell’acquisire questa capacità scopriamo che anche a noi viene donato lo stesso insieme di atteggiamenti, modalità del desiderio e immaginazione che rese Gesù capace di fare quello che fece. Questo dono è chiamato Spirito Santo ed è attraverso di esso che siamo in grado di entrare e abitare lo spazio della vergogna, della maledizione, della morte come se tutte queste cose fossero nulla, contribuendo così a che la bontà e la vivacità di Dio siano mantenute accessibili a tutti noi esseri umani qui sulla terra.

Questa è, se volete, la forma del dono dello Spirito Santo: il potere e la saggezza che hanno reso Gesù capace di fare quello che ha fatto, di occupare il posto del colui che è maledetto, di occupare il posto della vergogna e della tossicità così dolcemente e con una tale completa mancanza di rivalità o di senso di vendetta da far pedere il pungolo a tutte le forze che tengono insieme quei luoghi di tossicità, vergogna e maledizione e a sgonfiarle come tanti palloncini. Al posto di quegli spaventosi simulacri del potere e del significato cominciano lentamente, tranquillamente e dolcemente a farsi luminescenti il senso e il significato di ciò che il Creatore di tutte le cose ha fin dall’inizio continuato a portare alla luce dell’essere. Un senso e un significato che non sono mai terrificanti, mai intrappolati in doppi legami, mai volti ad imprigionarci, bensì benefici per tutti noi.

Trasformando il nostro schema del desiderio e illuminando la nostra immaginazione il dono dello Spirito Santo ci dà il potere di soffermarci in quello spazio con la stessa gentilezza d’animo fino a quando i simulacri si saranno piano piano sgonfiati e la verità risplenderà di un fulgore irresistibile, dandoci modo di partecipare all’avventura di rendere nuove tutte le cose senza preoccuparci per noi stessi. Questo Spirito capace di spingerci non dal di fuori, sottoforma di pressione di gruppo e di psicologia di massa, ma dal di dentro, senza spostarci da dove siamo, è stato propriamente riconosciuto come qualcosa che non si trova in stato di rivalità né con noi né con alcun altro potere in questo mondo ed è quindi stato dichiarato e proclamato anch’esso Dio.

Ma non è una rapida lezione di catechesi che vi volevo offrire. Vorrei spingermi un po’ oltre e proporvi alcune angolature dalle quali considerare il crollo del closet nella nostra chiesa e nella nostra società. Il closet può essere visto come realtà letteraria, come realtà politica, come realtà sociologica e si rivela interessante sotto tutte queste forme; un teorico queer, un analista politico o un sociologo avrebbero molto da dire a proposito. Io però aspiro a essere un teologo cattolico e mi sembra che parte delle rivendicazioni proprie della teologia sia il fatto di avere un modo diverso, più profondo e completo, di raccontare la verità anche a proposito di realtà mondane come queste. E parte di quella che considero essere un’essenziale area di esplorazione teologica include il modo in cui pensiamo di imparare a raccontare la storia di cio’ che ci sta succedendo in ambito gay e lesbiche come intrinseca alla storia cristiana. Vale a dire come qualcosa che fa parte della stessa identica dinamica di cui è parte l’apertura del regno celeste resa possibile dalla morte e resurrezione di Gesù.

Vi pregherei di notare che mi riferisco a qualcosa il cui significato è ben diverso da quello di molta discussione intorno alle questioni LGBT [3] che spesso capita di ascoltare nei circoli religiosi. Perché significa che vi sto invitando a considerare qualcosa che non è uguale all’asserire “le questioni LGBT sono questioni riguardanti i diritti umani e la Chiesa deve imparare a rispettare tali diritti”. Né che è uguale all’affermare “va bene, il cristianesimo è difficile, particolarmente difficile per le persone gay e lesbiche; noi sappiamo che Dio è misericordioso, e quindi come gay e lesbiche vorremmo che dal cristianesimo venisse tolta quella parte difficile che ci riguarda e che ci venisse concesso di viverne una versione alleggerita. Come la Microsoft con il suo sistema operativo XP ci dà l’opzione della “Home Version” o della pesantissima “Professional Version”, così vorremmo lasciare la “Professional Version” del sistema operativo cattolico nel disco fisso del Vaticano e portarci a casa invece la “Homo Version”, più bella e di facile uso.

No, quello che voglio suggerire è piuttosto diverso. Vorrei proporre che è sfasciando l’intero sistema operativo cattolico che diverremo davvero capaci di accogliere quello che sta succedendo in materia LGBT come intrinseco al pieno significato dell’azione di Gesù e quindi come qualcosa che interessa tutti i credenti e in ultima analisi tutta l’umanità.

Vedete, io penso che l’esistenza stessa del closet e il fatto che ne siamo consapevoli siano un segno dell’indebolimento della “maledizione della legge”. Prima che Gesù entrasse nel luogo della vergogna e rimuovesse il pungolo dal sistema di bontà dimostrando che si può vivere nello spazio designato come maledetto, non esisteva un “al di fuori” del sistema della legge. Non c’era nessun modo di guardare attentamente il sistema e di arrivare a percepire che era il posto dei doppi legami, della futilità, dell’ambivalenza e che non faceva affatto del bene a quelli che confidavano li avrebbe resi “buoni”. Quello che Gesù ha offerto e offre ancora, venendo in mezzo a noi come “il maledetto reso vivo” è una veduta “dal di fuori” sul sistema della legge, così che cominci a diventare possibile trattarne razionalmente invece che subirne semplicemente i dettami in modo irrazionale.

Ebbene, il fatto stesso che si sia incominciato a notare che c’è qualcosa che si chiama “closet” rispecchia una certa innovazione nella nostra storia: l’esistenza di persone che per prime hanno preso a dichiarare “sono gay, o lesbica, semplicemente, e non c’è da farne un affare di stato. Mi potete dire tutto quello che volete, ma non servirà a niente, perché preferisco morire che fingere.” In altre parole, ha cominciato a esistere un “al di fuori” dal quale si può vedere quale sia la condizione di vita di coloro che non sono pronti ad affermare “io sono, semplicemente”. E questo “al di fuori” è stato prodotto da persone pronte ad occupare lo spazio della vergogna, che di per se stesso non avrebbe lasciato trapelare nessuna voce e che tendeva fino a poco tempo prima ad essere strettamente connesso a morte, depressione, disonore e perdita.

La cosa interessante, naturalmente, è che non ci si aspettava necessariamente di scoprire che in quest’ambito esistesse uno spazio della vergogna a cui si può sopravvivere e in cui si può vivere. In passato, come certamente si pensava quando le definizioni della nostra società presupponevano l’intrinseca eterosessualità di tutti gli esseri umani, il tentativo di entrare nello spazio della vergogna e semplicemente “essere” gay o lesbica poteva benissimo essere considerato solo la mossa fatale di un pazzo: se qualcuno dichiarava di essere gay invece di pentirsi semplicemente per l’immoralità del suo comportamento, presto o tardi il nodo dell’ovvia perversità delle sue azioni sarebbe venuto al pettine. Un alcolizzato che sostenesse che, diversamente da quanto accade per i bevitori occasionali, l’essere alcolizzato, nel suo caso, significa che un alto consumo di alcool gli fa bene, si ritroverà prima o poi smascherato nella sua menzogna dal suo stesso fegato. Una persona che pensasse che l’aver perduto la sensibilità dei nervi della mano significhi la possibilità di friggere senza l’uso di padelle o di mettere impunemente la mano nel fuoco scoprirebbe ben presto gli svantaggi connessi a questa sua convinzione.

La cosa curiosa è che, mentre le società tendevano a trattare l’essere gay come una forma di disordine oggettivo, prevedendo conseguenze similmente autodistruttive, le persone che poco a poco cominciavano a occupare lo spazio della vergogna rendevano sempre più evidente il fatto che a quello spazio si poteva sopravvivere e che essere gay è semplicemente una cosa che è, più simile all’essere mancini che all’essere alcolizzati. O se preferite un linguaggio più biblico, la società che gettava le persone nella fornace ardente, come fece Nabucodonosor con Daniele e i suoi due compagni, cominciò a rendersi conto sbalordita che il fuoco non consumava i gay e alcuni teologi perversi cominciarono a notare che pareva esserci un quarto uomo tra le fiamme insieme agli altri tre:

“anzi il quarto è simile nell’aspetto a un figlio di dei.” (Dn 3:25)

Questa è una delle ragioni per cui sono felice di essere cattolico, perché il sistema operativo cattolico permette a questa precisa realtà di farsi chiara. Lo Spirito Santo è ciò che ci rende capaci di vivere nella Chiesa in mezzo al crollo del sistema di bontà e di vedere che quello che ne emerge, come raffinato dalle fiamme, è ciò che stiamo realmente diventando. O, per usare un linguaggio più classico, il crollo della legge religiosa estrinseca è accompagnato dall’emergere doloroso della scoperta della legge naturale, inscritta nel nostro stesso essere dal nostro Creatore che ci chiama a sé.

Mi sembra di notare che, provocando il crollo del closet e aprendone la porta, lo Spirito Santo stia agendo esattamente in quella maniera. Quella che per moltissimo tempo è stata la caratterizzazione di alcune persone come necessari “cattivi” all’interno di un sistema di bontà è venuta a sgretolarsi con sorprendente rapidità in quest’ultima cinquantina d’anni. A renderne possibile il crollo sono state persone che hanno vissuto e sono morte, spesso con estremo coraggio e subendo enormi perdite, nello spazio della vergogna. Con un duplice risultato: la scoperta dell’esistenza di persone che sono quello che oggi chiamiamo gay e lesbiche e il fatto che diventeranno quello che diventeranno a partire da ciò che sono e lavorando con ciò che sono; il fatto insomma che la legge naturale ci è amica. E che tutto questo è una genuina scoperta antropologica di ciò che significa essere umani; una scoperta che, una volta avvenuta, non può in buona coscienza venire disconosciuta.

Allo stesso tempo, questa occupazione sempre più pacifica dello spazio della vergogna ha creato un “al di fuori” dal quale alcune persone guardano al sistema di bontà e vedono coloro che vi si fondano intrappolati nei suoi doppi legami e nel suo scandalo. Lo spazio dei doppi legami e dello scandalo tocca tutti coloro che ne dipendono per ricevere uno status di bontà, qualunque sia il loro orientamento sessuale. Basti pensare a tutti quegli eterosessuali iper-conservatori che in anni recenti si sono schierati con i più closet tra i capi gay politici e religiosi per rinforzare il sistema di bontà contro nemici necessari, apparentemente senza sapere in che genere di compagnia si trovassero. Tuttavia, a venire colpiti nella maniera più diretta sono coloro che lo spazio della vergogna pacificamente occupato rivela legati alla propria distruzione, alla collera e ai doppi legami non per loro natura, ma a causa di un sistema culturale che non abbandonano solo per paura. Sono questi gli inquilini di quello che chiamiamo closet e, naturalmente, loro più di tutti hanno interesse a cercare di mantenere in vita il sistema di bontà e la sua rabbia contro quelli che osano sopravvivere all’“al di fuori”.

Ci troviamo dunque di fronte ad una domanda: cosa possiamo imparare riguardo a ciò che siamo chiamati ad essere mentre sediamo nel bel mezzo del crollo e della nuova creazione, scoprendo il nostro nuovo essere mano a mano che lo Spirito Santo ci porta alla vita? Non sono certo qui per consegnarvi definizioni affrettate e progetti politici. Vorrei piuttosto dire qualcosa molto all’antica e che potrebbe addirittura sembrare inadatto. Dal momento che la nostra vocazione, i nostri progetti di vita all’interno della chiamata ad essere da parte dell’“Ecclesia” sono una cosa seria, la nuova direzione in cui ci muoveremo è inseparabile da quello che abbiamo subito e stiamo subendo. È solo nella misura in cui ci ritroveremo poco per volta ad abitare la sopportazione di ciò che ho finora descritto che ci scopriremo capaci di costruire modalità di vita all’interno di ciò che fino a poco tempo fa sembrava impossibilità.

Mano a mano che ci ritroveremo investiti dallo Spirito Santo del potere di dimorare pacificamente e senza risentimento in quello che sta lentamente diventando uno spazio di tossicità evanescente, ma che per alcuni è ancora un luogo della vergogna prepotentemente pericoloso, le nuove direzioni della vocazione si faranno chiare. In altre parole, è nel tempo, con la preghiera e la contemplazione che scopriremo noi stessi dentro a quello che ci sarà dato di essere.

Ad esempio, tutte le discussioni sulla “Famiglia” all’interno di vari contesti culturali attuali sono caratterizzate da tentativi deleteri di designare la famiglia come sistema di bontà e le persone gay e lesbiche, i loro bisogni e le loro aspirazioni, come in qualche modo i nemici di questo sistema. È tipico: si combattono prima le battaglie politiche dei voti e delle cause e solo più tardi le vere battaglie di coinvolgimento e dolore psicologico. Vorrei esortare tutti noi a concentrarci sulla vera battaglia, anche trovandoci allo stesso tempo coinvolti, volenti o nolenti, nella battaglia politica. Nella vera battaglia molti di noi si sono trovati ad affrontare una nozione di “famiglia” come realtà che impaurisce, che ci minaccia e che non ci darebbe spazio se dovesse accorgersi che siamo gay. Ora però, scoprendo la forza che lo Spirito Santo ci dà di vivere nel luogo della vergogna senza essere reattivi, senza risentimento, possiamo finalmente cominciare a immaginare che anche la nostra esperienza all’interno della famiglia, esperienza che a volte comporta il dover vivere dipendendo da una realtà ostile, può venire traslata; diventa così possibile per noi e per le nostre famiglie cominciare a capire cosa significhi vivere insieme, esserci gli uni per gli altri, sostenersi a vicenda, correggersi a vicenda, prendersi cura gli uni degli altri partendo da quello che veramente siamo invece che da false presupposizioni su quello che dovremmo essere. Quelle presupposizioni ci sminuiscono tutti e creano sofferenza tanto tra quegli eterosessuali che si sentono condannati dal sistema di bontà a un comportamento profondamente ambivalente nei confronti dei loro figli e fratelli gay quanto tra quei figli e fratelli per i quali il sistema di bontà trasforma la “famiglia” in un sinonimo di “annientamento dell’essere”.

Come alcuni commentatori culturali hanno cominciato a notare [4], un punto di forza della famiglia cattolica e della famiglia nelle culture di maggioranza cattolica sembra essere una relativa elasticità di fronte ai tentativi della gerarchia ecclesiastica di appoggiare i sistemi di bontà. Tipicamente, le famiglie optano per il duro compito di imparare il modo di amare la propria prole gay e lesbica e di continuare ad amarla nel tempo; un amore che comprende soddisfazione per le protezioni legali di cui figli e figlie, fratelli e sorelle cominciano a godere, difesa di quelle protezioni e rifiuto della facile morale delle definizioni assolute e dell’odio e delle separazioni conseguenti che il sistema di bontà ha sempre cercato di consolidare.

Lo stesso schema si ritrova nella questione della forma pubblica che dovrebbe assumere la coppia dello stesso sesso: c’è la battaglia politica intorno alla possibilità per le coppie dello stesso sesso dell’accesso al matrimonio civile con i suoi diritti e le sue responsabilità, e c’è la vera battaglia vocazionale che vi si svolge accanto e tutto intorno, nella quale può rimanere solo chi sta veramente combattendo. Si tratta di qualcosa del tipo: “Che forma potrà mai avere una sana socializzazione gay con possibilità di corteggiamento, un’adolescenza vissuta contemporaneamente a quella dei miei coetanei eterosessuali invece che molto più tardi? Che forma prenderanno le speranze adolescenziali, le paure e i primi appuntamenti amorosi quando se ne potrà parlare in famiglia e con gli amici invece di tenerli nascosti o di evitare l’argomento per eccesso di delicatezza, vergogna e paura? Come sarà quando quelli che “semplicemente sono così” saranno in grado, fin dalla fanciullezza, di aspirare ininterrottamente ad una vita con un partner dello stesso sesso senza dover affrontare profonde battaglie psicologiche a chiedersi se questo sarà mai possibile, se un tal genere di felicità sia anche solo immaginabile, e dunque senza portare incise nell’anima le cicatrici di una lunga lotta contro l’impossibilità?

Ancora di più: che tipo di dono costituiranno le coppie dello stesso sesso per la famiglia, la Chiesa e la società? Che tipo di segni di benedizione divina e di creatività saranno? In che modo le coppie gay e quelle eterosessuali e le loro famiglie si schiereranno le une “per” le altre nel futuro, al di là delle insulse proposte di Queer Eye for the Straight Guyper una profusione sinora inimmaginata di sfarzo e senso della moda tra maschi eterosessuali? [5] Sembra che le coppie gay si trovino a dover creare, immaginare e negoziare ogni aspetto del loro stare insieme, non potendosi basare su alcuna tradizione riguardo a cosa appaia “naturale”. Proprio per questo, non potrebbe essere che queste coppie abbiano qualcosa da offrire a coloro ai quali l’apparente naturalezza del loro stare insieme eterosessuale in realtà rende più difficile diventare vitali creatori nel mondo della coppia e della famiglia? È questo che sembra stia accadendo mentre nel mondo si diffonde sempre di più la consapevolezza che la “natura” abbia a che fare molto meno di quel che si pensasse con la formazione della base per l’accoppiamento tra sessi opposti e che le forze in gioco siano piuttosto lo spostamento degli schemi di potere, desiderio e ricchezza. Credo che sarà solo con il tempo, abitando lo spazio della vergogna senza reazioni, senza risentimento, affrancandoci dalla ricerca di approvazione e da soluzioni a corto termine, che riusciremo a cominciare ad intravedere la forma della nostra vocazione alla creazione di segni viventi da condividere con le altre persone.

Vorrei affrontare infine la questione delle vocazioni al presbiterato. [6] Come vi aspetterete da quello che ho detto fin qui, il mio modo di affrontare l’argomento dei gay e del presbiterato è leggermente diverso da quello di altri commentatori. Prima di tutto, vorrei notare che per trattare lo stato attuale del sistema formativo clericale rispetto alle “cose gay” non si può partire dalla nozione di “non c’è niente di rotto, quindi non c’è niente da aggiustare”. Il sistema è rotto. Ha bisogno di essere aggiustato. Il mondo del clero e i seminari che lo alimentano sono un classico esempio di quello che significa cercare di vivere un doppio legame nel mezzo del crollo del sistema di bontà, con tutta la paura della vergogna e gli accessi di collera che si possono immaginare. Il mondo del clero è strutturalmente, profondamente disonesto riguardo alla questione gay. E non credo di farmi difensore dei gruppi di pressione di destra quando dico che al momento non mi sentirei di incoraggiare nessuno che mi piaccia e che reputi un onesto uomo gay ad entrare in seminario. La probabilità che riesca a diventare un essere umano maturo senza dover stare ad assurdi e avvilenti giochi di simulazione, ricatto emotivo e peggio è, direi, quasi inesistente. Fino a quando la Chiesa non arriverà a trattare pubblicamente e onestamente l’intera questione dell’essere gay (e questo dipenderà dal fatto che coloro che si trovano già all’interno del sistema clericale trovino molto più coraggio di quello finora dimostrato nello schierarsi a favore di quella che sanno essere la verità) non credo sia di alcuna utilità dichiarare che sarebbe offensivo nei confronti dei gay consigliare loro di evitare per il momento di entrare in seminario.

Detto questo, vorrei offrire dei suggerimenti per una lettura positiva degli eventi attuali. Credo fermamente nel principio ignaziano per cui si deve cercare di leggere tutti i documenti della Chiesa nella miglior luce possibile, cercare di immaginare la presenza di intenzioni benevole anche laddove non ci dovessero essere. E non solo per una questione di igiene mentale. Il fatto è che immaginare ed interpretare qualcosa positivamente è un atto creativo che tende a rendere più probabile uno sviluppo pratico nella direzione di quella positività.

Penso di poter affermare che all’interno del Vaticano chi possiede buone intenzioni comprende benissimo che la caratterizzazione ufficiale attuale dell’omosessualità adottata in documenti recenti non è materia di fede, che è aperta al cambiamento e che in realtà sembra si stia già trasformando: nella vecchia caratterizzazione si assumeva che l’omosessualità fosse un grave disordine della personalità e, se questa è ancora la posizione ufficiale, oggi non è affatto un’eresia immaginare che la concezione moderna secondo cui l’attrazione verso persone dello stesso sesso non è più oggettivamente disordinata dell’essere mancini si riveli alla fine esatta.

Nel momento in cui sarà chiaro che quella che finora è stata la posizione ufficiale si avvia rapidamente a diventare un’“opinione” come tante altre possibili opinioni, saremo già sulla buona strada verso il divenire una Chiesa capace di vivere razionalmente con questa realtà. Un tale cambiamento tuttavia non può essere incoraggiato dall’alto senza causare scandalo per i deboli di fede, generalmente coloro che mantengono con rigidità un’immagine della Dottrina della Chiesa senza sfumature, assoluta ed immutabile. Si deve dunque lasciare che il cambiamento penetri gradatamente, come in effetti sta già facendo, latore di buone nuove per la popolazione laica che vede aprirsi possibilità di vita oneste e di iniziative pastorali non ambigue. Bisogna anche capire però che queste stesse buone nuove possono benissimo prendere la forma di cattive notizie per il clero, soprattutto per coloro che al suo interno, negli ultimi trenta o quarant’anni, sono stati costretti a socializzare in una cultura di disonestà consolidata dalla vecchia caratterizzazione ufficiale.

Ricordiamo che la vecchia caratterizzazione ufficiale poneva efficacemente un forte accento sulla distinzione tra “essere” e “atti”, che si traduceva per il clero nell’incoraggiamento a non fare coming out, a non accettarsi come uomini gay bensì come eterosessuali seriamente deficitari e nella rassicurazione che tutto sarebbe andato bene a patto che rimanessero casti. Forti della copertura offerta da questa distinzione ufficialmente sostenuta, molti sacerdoti closet hanno potuto lanciarsi in una caccia alle streghe ideologica o anche fattuale contro persone gay più oneste di loro, come nel caso di formatori di seminario e di vescovi, usando discorsi che sottolineavano quanto orribili fossero “quegli omosessuali” e via dicendo. Una delle dimensioni meno edificanti di tutto il mondo del clero è la presenza frequente di persecutori anti-gay la cui omosessualità, solo furtivamente manifestata, sembra essere nota a tutti tranne che a loro stessi. E non si riesce quasi mai ad impegnare queste persone in un confronto produttivo, poiché la loro patologia è stata sinora avvalorata dall’“insegnamento della Chiesa”.

Ebbene, pare che ora il Vaticano abbia chiuso la voragine che aveva aperto tra l’essere e gli atti e non posso che gioirne. Quella voragine è stata uno dei baluardi più inattaccabili contro onestà e salute mentale e spirituale nella vita del clero. Naturalmente la chiusura di quella voragine è presentata in termini negativi, con l’affermazione da parte del Vaticano che le persone gay soffrono di un disturbo della personalità così grave da non poterci aspettare che sappiano vivere il celibato in maniera appropriata e che quindi non c’è posto per loro nel sacerdozio. Non si dovrebbe però permettere a questa opinione negativa di oscurare il fatto più significativo che, finalmente, la distinzione responsabile di aver promosso la divulgazione di mille bugie è stata doverosamente sepolta. La vera questione ora riguarda “quello che siamo”, non in primo luogo “quello che facciamo”.

Credo non sia stato solo un caso che l’anonimo ufficiale della Curia Romana che nel settembre del 2005 fece trapelare attraverso il New York Times alcuni dettagli dell’Istruzione che sarebbe apparsa due mesi dopo abbia commentato che “la definizione stessa di omosessualità non è fissa”: come dire che quella che era stata la caratterizzazione delle persone gay come oggettivamente disordinate, accampata da molti come immutabile insegnamento della Chiesa, è diventata un’opinione. Questo significa che con il tempo, quando nuovi modi di vedere diverranno comuni e sarà normale per i cattolici gay vivere fin dalla fanciullezza una socializzazione onesta ed equilibrata, l’attuale opinione negativa potrà cambiare; e si scoprirà che c’è un posto in seminario per quella piccola percentuale di uomini gay, e per l’altrettanto piccola percentuale di uomini eterosessuali, che considerano il celibato come un dono e una chiamata piuttosto che come un obbligo imposto da un miscuglio di tabù e psicologia pre-scientifica.

Credo quindi che l’Istruzione venga interpretata nel migliore dei modi quando sia considerata un intervento volto a concedere una dovuta pausa ad un sistema che sa di essere in grossi guai, causati appunto alla disonestà sistematica che ha caratterizzato finora il proprio modo di vivere la questione. Non è affatto chiaro quanto rigore si aspettino gli autori del documento riguardo alla sua applicazione: nel momento in cui un documento del Vaticano lascia trasparire che sono possibili eccezioni alla sua stessa regola—assunzione spesso presente ma mai dichiarata—si può star certi che questo verrà letto come un via libera da chi è pronto ad oltrepassare le porte aperte da quell’eccezione non con un semplice carro, ma con un’intera divisione di cavalleria. Comunque, il punto fondamentale è che il Vaticano riconosce effettivamente di non poter ancora offrire ai maschi gay un posto onesto all’interno delle strutture della Chiesa; sarebbe dunque immorale tentarli con la proposta di entrare in seminario. Non lo può dire pubblicamente, ma suggerisce che naturalmente, mano a mano che la definizione di omosessualità cambierà e sane forme di vita gay si faranno più chiare e visibili, la questione potrà venire riconsiderata.

Personalmente penso che l’instaurarsi di questo processo, per quanto maldestramente possa essere gestito, rappresenti una buona notizia per la stragrande maggioranza dei cattolici gay. Credo che i cambiamenti che si sono visti nella società verranno affrontati razionalmente dall’autorità ecclesiastica e che ci troviamo in testa a sviluppi molto significativi. Principali beneficiari ne saranno le persone gay e lesbiche, poiché diventerà possibile compiere un’opera pastorale libera dalle redini del doppio legame della vecchia caratterizzazione e i frutti di questo lavoro andranno ad alimentare le fila di un clero più sano. Non dovremo sorprenderci, però, se le cose sembreranno muoversi all’indietro invece che in avanti. Il capitano di una grande nave gira il timone di pochi gradi e la prua curva nella nuova direzione; la poppa tuttavia sembra curvare nella direzione opposta. Quello che invece sta facendo è allinearsi con la nuova direzione della prua e insieme a quella portare la nave in avanti.

E improvvisamente, fatta questa curva, potremmo ritrovarci a discutere razionalmente di argomenti che prima erano tabù o questioni impossibili all’interno della Chiesa! E dunque, mentre scopriamo noi stessi all’interno della nostra chiamata, lasciamo che entri in noi lo Spirito di Colui che, capace di immaginare la gioia che avrebbe portato, si donò al patimento della Croce, occupando lo spazio della vergogna come se nulla fosse e in questo modo rendendo vivo lo spazio di inimmaginabile onore ed approvazione concesso a tutti noi da Dio Padre, nostro Creatore. [7]

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[1] Londra: DLT, 2003; New Tork: Crossroad, 2004.

[2] Mi riferisco al magnifico Galatians di J. Louis Martyn, per la serie “The Anchor Bible” (New York: Doubleday, 1997).

[3] L’ormai tradizionale acronimo di Lesbian, Gay, Bisexual, Transgendered.

[4] Cfr. l’articolo di Michelangelo Signorile “Could Catholicism be Good for the Gays?”, apparso nel 2005 sul suo sito personale.

[5] Programma televisivo di grosso successo ideato dalla rete americana Bravo, in cui cinque uomini apertamente gay trasformano le abitudini estetiche, culinarie e di moda di un eterosessuale. Il format del programma è stato ripreso in Italia da La 7, con il titolo I fantastici cinque. [ndt]

[6] Questa sezione è stata scritta poco prima dell’uscita, nel novembre del 2005, dell’“Istruzione della Congregazione per l’Educazione Cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri”. Ne ho redatto il contenuto in questa sede in modo da evitare di riproporre materiale che è divenuto irrilevante o che ho incluso nella mia risposta all’Istruzione dopo che questa fu pubblicata. Si veda per quella risposta il capitolo 11.

[7] Eb 12:2, in parole mie.


© 2005-2006 James Alison. The original English text was published in the book Undergoing God. Translated by Eliana Crestani.